Ecclesia Dei. Cattolici Apostolici Romani

Evandro Agazzi

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TotusTuus
view post Posted on 14/11/2006, 09:34     +1   -1




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BIOGRAFIA

Nato a Bergamo nel 1934 è stato ordinario di Filosofia della scienza all'Università di Genova dal 1979 e professore di Antropologia filosofica all'Università di Fribourg (Svizzera). Insegna attualmente Filosofia teoretica all'Università di Genova.
Ha compiuto gli studi di Filosofia presso l'Università Cattolica di Milano e quelli di fisica presso l'Università Statale della stessa città. Si è poi perfezionato a Oxford, Marburg e Münster. Ha conseguito due libere docenze: in Filosofia della scienza (1963) e in Logica Matematica (1966) ed ha tenuto diversi incarichi di insegnamento: presso il Dipartimento di Matematica dell'Università di Genova (Geometria Superiore, Matematiche complementari, Logica Matematica), presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (Logica Simbolica), presso l'Università Cattolica di Milano (Filosofia della Scienza e Logica Matematica), prima e dopo essere divenuto professore ordinario di Filosofia della Scienza all'Università di Genova (1970). Ha pure ricoperto la cattedra di Antropologia Filosofica, Filosofia della Scienza e Filosofia della Natura all'Università di Friburgo in Svizzera (1979-1998) e ha insegnato come professore invitato presso università straniere, quali Düsseldorf, Berna, Pittsburgh, Ginevra, Stanford e, per periodi più brevi, in molte altre. Attualmente è ordinario di Filosofia Teoretica all'Università di Genova. E' stato invitato come relatore a parecchi congressi internazionali, convegni, simposi e ha tenuto numerose lezioni accademiche in tutti i continenti.

E' presidente dell'Académie Internationale de Philosophie des Sciences (Bruxelles), Presidente onorario dell'Institut International de Philosophie( Parigi) e della Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie (FISP). Ha diretto il Centro di Studi per la Filosofia Contemporanea del Consiglio Nazionale delle Ricerche. E' stato due volte Presidente della Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza, ha presieduto la Società Filosofica Italiana, la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, l'Institut International de Philosophie, la Société Suisse de Logique et Philosophie des Sciences e diverse altre istituzioni scientifiche. E' stato pure tesoriere del Consiglio Internazionale della Filosofia e delle Scienze Umane dell'UNESCO. E' dottore honoris causa delle Università di Cordoba e di Santiago del Estero (Argentina)., e dell'Università Ricardo Palma di Lima (Peru). E' stato membro del Comitato Nazionale Italiano per la Bioetica.

Le sue pubblicazioni comprendono oltre 60 volumi (di cui è autore o curatore) e oltre 600 articoli e saggi, costituenti contributi in volumi collettivi, antologie enciclopedie e riviste, senza contare le recensioni e gli articoli su quotidiani. E' direttore delle riviste Epistemologia e Nuova Secondaria e appartiene al comitato scientifico di alcune importanti riviste internazionali, come Erkenntnis, Revue Internationale de Philosophie, Zeitschrift für Allgemeine Wissenschaftstheorie, Medicina e Morale, Modern Logic, Kos, Sandhan. E' stato ed è tuttora membro del comitato scientifico di dizionari ed enciclopedie scientifiche.
 
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TotusTuus
view post Posted on 14/11/2006, 17:05     +1   -1




Temi centrali della ricerca filosofica oggi 1

Evandro Agazzi




PREMESSA

Mi incontro volentieri con gli insegnanti di filosofia perché so quanto sia importante la loro opera e perché ritengo che l'avere io stesso insegnato filosofia al liceo abbia contribuito ad orientare in modo particolare il mio pensiero filosofico. In particolare per quanto riguarda la necessità di aver chiare le idee per parlare e per esporle: l'insegnamento offre in tal senso un feed-back estremamente utile. Infatti non è possibile insegnare adeguatamente filosofia In una classe liceale senza essere arrivati ad una chiarificazione concettuale accettabile, e questo serve anche ai filosofi di professione. Il fatto che uno stuolo sempre crescente di filosofi di professione usi un linguaggio oscuro e difficile è legato a mio giudizio anche alla circostanza che oggi non ci sia più un periodo di tirocinio nella scuola superiore e si passi direttamente dalla laurea alla ricerca universitaria. L' invece, urgente riaprire i canali tra la scuola e l'università: si tratta di una importante questione di politica culturale che gli stessi sindacati dovrebbero avere a cuore.
Nell'insegnamento, inoltre, è importante andare oltre la "manualistica", anche quella altissima, per affrontare i classici e quanto è stato scritto sul problema dalla letteratura che viene chiamata secondaria, e quindi arrivare a fare le proprie valutazioni critiche, a pensare con la propria testa.
Tutto questo è solo un preambolo all'argomento assegnatomi nel titolo. Ma, lo non farò la sintesi delle principali correnti filosofiche odierne. Mi limiterò, usando la mia esperienza entro la scena filosofica anche come presidente della federazione mondiale della società di filosofia - ad esprimere le mie impressioni sul sapore, sul tono e sul timbro della filosofia contemporanea.

I. Alcuni aspetti della filosofia contemporanea

La filosofia contemporanea è caratterizzata dai seguenti aspetti macroscopici:

A) L'assenza di sistema, almeno nel senso tradizionale per cui ogni filosofo doveva trattare in modo organico tutti i temi dell'enciclopedia filosofica. L'espressione è, come è noto, hegeliana; ma il concetto lo si ritrova ancora in Kant o in Marx che, partendo rispettivamente dal problema gnoseologico e da quello storico, procedono a ricostruire la totalità del sistema con la prospettiva ontologica, logica, etica, estetica e politica. Croce, che non si considerava un filosofo di professione, a differenza di Gentile, si presenta un po' meno completo dal punto di vista del sistema. In Heidegger, poi, non c'è posto per l'etica, anche se il suo resta un pensiero fortemente organico. Lo stesso dicasi per Husserl che, incentrando tutta l'attenzione sul metodo fenomenologico, non ha inteso costruire un sistema. E non a caso essi sono i pensatori che più hanno influenzato la filosofia contemporanea; mentre i tanti autori che hanno costruito dei sistemi nella prima metà del nostro secolo sono rimasti dei semplici professori, poco stimolanti dal punto di vista concettuale.

B) La filosofia oggi vive semmai di "correnti". Già nel passato le correnti esistevano: erano le scuole (come il kantismo o l'hegelismo) che, poi, gli storici della filosofia hanno etichettato - ad uso dei manuali - come criticismo o idealismo; o - facendo un cammino a ritroso - come razionalismo ed empirismo. Etichette di comodo, si diceva. In realtà, mettere insieme sotto il titolo di "razionalismo" Cartesio, Spinoza e Leibniz è poco giustificato da una ragione intrinseca: i nessi tra loro ci sono, dal momento che interloquivano; ma gli stili di pensiero, gli obiettivi e gli interessi che coltivavano erano molto differenti. Lo stesso, a maggior ragione si dica, per 'l'empirismo". Cos'hanno in comune, ad esempio, Berkeley e Hume, che nelle storie della filosofia sono sempre allineati insieme?
Meno artificiosa appare, invece, la distinzione in "correnti" nel Novecento: ad es. si può parlare di una corrente fenomenologica nel senso che è possibile rintracciare un problema, un autore, ed una specifica discendenza, pur con tutte le differenziazioni inevitabili.
Si parte dal Brentano, si seguita con Husserl che approfondisce la linea brentaniana secondo un'impostazione che sarà proseguita nella cultura tedesca, da Heidegger in particolare che - però - proseguirà in maniera originale e completamente differente tanto da originare a sua volta una nuova corrente col nome di "esistenzialismo" (di cui, peraltro, è possibile rintracciare le radici in Kierkegaard).
Correnti, dunque, non sistemi. Ciò è stato considerato da alcuni un segno di dissoluzione e di frammentazione, per altri un segno di libertà e di vitalità del pensiero. La verità è che i problemi filosofici non hanno mai soluzione, il discorso filosofico è sempre aperto. Se vogliamo, i problemi sono sempre gli stessi, ma cambiano le situazioni storiche: per cui le risposte della filosofia risultano legate alle istanze del tempo.
La fine del "sistema" coincide con una maggiore "professionalizzazione" del lavoro dei filosofi nelle università. Sono rari, infatti, nel Novecento i casi di filosofi non accademici: B. Croce, B. Russell, e pochi altri. In generale, il lavoro filosofico si svolge negli istituti di ricerca universitari con un alto livello di specializzazione in ambiti settoriali ben definiti: il linguaggio, l'etica, l'estetica, la scienza, la conoscenza, ecc.
Ci sono, però, due rischi gravi in questa estrema parcellizzazione del lavoro accademico. Innanzitutto, c'è la possibilità di avere ricerche che, pur molto sofisticate rispetto al rigore metodologico e procedurale, risultano del tutto irrilevanti dal punto di vista dei contenuti culturali e speculativi. Nella mia esperienza di redattore di Erkenntnis, la rivista fondata dal Circolo di Vienna ed ancor oggi bibbia della filosofia analitica, mi capita spesso di leggere articoli rigorosi nella costruzione argomentativa, ma molto banali per l'argomento. è il rischio della chiusura nell'accademia, che comporta non solo l'impoverimento della filosofia, ma anche un secondo grave inconveniente: l'esclusione dalla considerazione della comunità filosofica internazionale di moltissima produzione, ad es. dell'area dell'America latina, interessante, ma non redatta secondo le regole.
Vi sono, però, anche dei vantaggi in questa specializzazione del lavoro filosofico che ha consentito di andare a fondo in tante problematiche, proprio attraverso l'affinamento degli strumenti ed il restringimento del capo di indagine.

C) In Italia c'è da registrare una ricerca essenzialmente centrata sulla storiografia filosofica, a totale discapito della teoresi. Ciò è da attribuirsi a fattori tipici della nostra tradizione culturale ed all'egemonia del marxismo che, a partire dalla caduta del regime fascista, ha privilegiato l'approccio storico ai problemi. Situazione, come è noto, del tutto opposta a quella americana ove tale approccio, almeno fino a qualche anno fa, veniva totalmente negato in favore di un approfondimento di logica, di analisi del linguaggio o di filosofia della scienza. In realtà si tratta di due eccessi: la carenza di senso storico e l'assenza di abilità teoretiche sono indubbiamente due limiti che vanno superati in un orizzonte più completo di ricerca e di studio.

2. Le aree geografiche

E' possibile, oggi, indicare in termini generali una ripartizione per aree geografiche della filosofia, a condizione che esse non siano assunte come compartimenti stagni.
Il grande mondo anglo-americano costituisce in realtà un'area in sé conchiusa, in cui i filosofi hanno sempre letto e discusso i loro testi ed i loro autori: Locke, Hume e Russell, con qualche incursione a ... Vienna ed in Germania! Più recentemente si è avuto un interesse per la fenomenologia e per Heidegger, ma si tratta forse di un fenomeno superficiale.
La verità è che il mondo anglo-americano è notevolmente vasto e ricco di pubblicazioni e riviste che riesce a non essere provinciale pur restando all'interno della propria area!
Molto chiusa appare anche l'area francese che per decenni ha continuato ad alimentarsi di Descartes e di Bergson, e che solo recentemente ha tradotto Heidegger. Così si dica per l'area tedesca, ove - però - la diaspora degli intellettuali durante il nazismo alla volta dell'America e dell'Inghilterra, con il successivo rientro in tempi più recenti, ha consentito un contatto con la filosofia analitica e la filosofia della scienza. Di estrema apertura verso le altre aree geografiche è, invece, la situazione italiana: noi traduciamo tutto quello che viene pubblicato all'estero.
Ciò ci consente di conoscere e di essere estremamente informati ed aperti; ma si deve altresì segnalare che le nostre pubblicazioni sono praticamente sconosciute all'estero. li motivo è da ricercarsi nel fatto che la lingua italiana - dal Settecento in poi - non è più una lingua culturale. Metastasio poteva vivere a suo agio a Vienna, a corte, senza imparare il tedesco e parlando l'italiano. Oggi, invece, ad eccezione degli storici dell'arte che necessariamente hanno dovuto soggiornare in Italia ed imparare la lingua, gli studiosi delle altre discipline non conoscono l'italiano. Tale situazione per la filosofia si è aggravata anche a causa dell'indirizzo che ha preso la nostra ricerca e che ha sempre scoraggiato la teoresi.
In sintesi, si può affermare che i due grandi scomparti della scena filosofica sono ancor oggi riconducibili alla filosofia analitica, prevalente in ambiente anglo-americano, ed a quello della filosofia continentale (fenomenologia, esistenzialismo, idealismo, utilitarismo). Nel passato vi è stata una grande impermeabilità tra queste due aree; ma a partire dagli anni Sessanta la filosofia analitica ha conosciuto una notevole fortuna, soprattutto perché nel dopoguerra si avvertiva il bisogno di tirarsi fuori dal clima intellettuale che in Europa aveva accompagnato le dittature.
Un discorso a parte si dovrebbe fare per l'area dei paesi socialisti, dominati dall'ideologia marxista-leninista per lunghi decenni. Prima degli avvenimenti del 1989 era difficile per la comunità scientifica internazionale riuscire a capire quali settori di ricerca si sviluppassero in URSS, perché nei Congressi veniva sempre riproposta l'ideologia ufficiale. Ma la situazione andava mutando rapidamente e, già prima della caduta del Muro, l'ideologia veniva messa in discussione, tanto che gli occhi attenti potevano scorgere ad es. in un articolo, accanto alle rituali citazioni di Lenin, un approfondito intervento sulla fisica dei quanti. Ed oggi è evidente lo sforzo di recuperare le antiche tradizioni culturali in concomitanza con l'esplosione nazionalistica sul piano etnico e politico.

Più interessante e vitale si presenta lo scenario filosofico dell'area latino-americana, ove la filosofia viene studiata anche nei licei. è difficile schematizzare in poche parole le linee di sviluppo di tale filosofia, che spesso è stata coltivata come conseguenza della tradizione gesuitica e scolastica. Si tratta di una cultura oggi molto aperta agli scambi ed alle influenze straniere, dopo lunghi periodi di esclusione dai circuiti internazionali. Lo spagnolo, in realtà, è la seconda lingua al mondo, dopo l'inglese: di gran lunga più diffusa del francese e del tedesco. Di particolare rilievo, anche se di scarsa originalità, è stata più recentemente l'elaborazione di una filosofia della liberazione, proiezione della teologia della liberazione e della visione marxista della storia.
C'è, inoltre, da osservare che i popoli latino-americani avevano una filosofia scritta, di cui ci sono rimasti codici, che risale alle civiltà pre-colombiane dei Maya e degli Atzechi. Ma le sorti di tale pensiero seguirono il destino che capita sempre al popoli conquistati: perdita della libertà e distruzione - da parte dei conquistatori spagnoli - dei codici e delle fonti di tale filosofia "pagana", che oggi è possibile in minima parte rintracciare nei resoconti dei missionari che avevano tradotto nel linguaggio della Filosofia occidentale tutta una serie di contenuti di quel pensiero.
Vi sono, poi, da rammentare quelle filosofie di impianto non-occidentale, sia in Africa che in Asia. Qui il discorso è veramente lungo ed arduo, perché, come è noto, c'è chi ha ritenuto quello africano, ad es., un pensiero primitivo, rispondente ad un'anima non-razionale e mitica (cfr: Lévi-Strauss e l'antropologia strutturale). Si tratta di una posizione superata ed opposta alla impostazione della "negritude" che, invece, ha rivendicato l'esistenza di una specificità africana da ricostruire dal suo interno senza le deformanti lenti della cultura occidentale.
In Asia, poi, abbiamo tradizioni filosofiche scritte, ma si tratta di un'amalgama che comprende filosofia, religione, morale e mitologia. Si è spesso detto che tale pensiero, pur presentando profonde riflessioni, manca dell'argomentazione che è tipica della filosofia. Ma c'è da osservare che questo vale anche per l'Occidente: quanto c'è di argomentato, ad es., in Platone ed Agostino? La verità è che religione e filosofia hanno molti problemi in comune; in Occidente la tradizione filosofica li ha trattati in modo indipendente e separato, in Oriente ciò non è avvenuto: fede e pensiero hanno affrontato insieme le problematiche destinali e soteriologiche, anche se recentemente sia in India che in Giappone si approfondisce anche la filosofia occidentale, in particolare la fenomenologia.

3. La svolta linguistica e l'interesse per l'etica

Con l'espressione "svolta linguistica" si suole intendere un radicale spostamento di ottica, paragonabile alla "rivoluzione copernicana" dell'età moderna. Quanto noi conosciamo, ancor più che dentro il "soggetto" (età moderna), è all'interno del linguaggio. Se, schematizzando, Kant sosteneva che possiamo conoscere ciò che "ci" appare, i filosofi della cosiddetta svolta linguistica sostengono che possiamo conoscere ciò che "diciamo". Tale impostazione si è presentata in primo luogo all'interno della logica e della filosofia dei linguaggio; poi si è dilatata a prospettiva generale, riducendo tutta la filosofia ad analisi del linguaggio. Così i problemi tradizionali della ricerca filosofica sono stati in qualche modo svuotati del loro contenuto tradizionale, e l'accento si è spostato sull'analisi del linguaggio: religioso, estetico, giuridico, ontologico, scientifico, ecc. Per cui le varie filosofie specialistiche sono diventate, in fondo, dei tentativi di analisi delle condizioni di sensatezza o di significato dei linguaggi settoriali.
La filosofia analitica ha dominato la scena in particolare nel mondo anglo-americano, in modo egemonico fino a vent'anni fa; ma si è diffusa anche sul continente europeo. In fondo, l'ermeneutica è in qualche maniera un'analisi del linguaggio - con i problemi di segni e codici, d'interpretazione e di significato - anche se pensata su altre basi teoriche. I nomi da fare sono quelli di Gadamer e di Ricoeur, ma anche di Heidegger ("In cammino verso il linguaggio") e della fenomenologia husserliana. Differenze di metodi e forse anche di obiettivi, ma spesso si scoprono delle vicinanze nelle fonti.
C'è, infine, da registrare una ripresa dell'etica e della filosofia politica, proprio in connessione con l'impatto formidabile della tecnologia e della scienza nella nostra società. Oggi, andando oltre le etiche metafisiche e quelle intenzionali di origine kantiana, si pone l'attenzione sulla differenza tra ciò che è possibile e ciò che è lecito. Mentre la tecnologia tende a realizzare tutti i possibili, cresce la preoccupazione circa queste realizzazioni. Preoccupazione che all'inizio è - come scrive H. Jonas - un sentimento di paura, ma che poi si trasforma in responsabilità verso il mondo che ci circonda, verso la natura e le generazioni future. Una nuova responsabilità, per la quale la vecchia etica non era attrezzata, perché la considerava solo individuale. La nuova riflessione etica invece s'interessa di tutta una serie di conseguenze non volute delle azioni degli uomini, perché difficilmente prevedibili. Ed in questa direzione vanno le ricerche della riflessione etica applicata alla biologia, all'ambiente, alla politica, alla tecnologia, ecc.

Per completare il panorama contemporaneo accenno solamente, in conclusione, al ritorno di alcuni problemi più tradizionali della filosofia, come quelli ontologici e metafisici e cosmologici; oltre alle ricerche sull'intelligenza artificiale e la cibernetica.

1 "Il sapere filosofico e gli altri saperi" - Atti del Seminario per docenti di filosofia - S. Margherita Ligure (Ge), 1992
 
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Raimundus
view post Posted on 5/7/2007, 21:16     +1   -1




Etica e scienze

L'Unità, 28 aprile 1997

Le implicazioni etiche della scienza e della tecnica
intervista a Evandro Agazzi di Ennio Galzenati

Professor Agazzi, come vede nella nostra epoca il problema della libertà di ricerca? Il problema della libertà di ricerca riguarda, nella discussione attuale, la scienza e soprattutto la tecnologia. Non senza una certa ragione la tecnologia è considerata come una proiezione quasi immediata della scienza e, se non proprio identica, coinvolta in modo molto forte dalla scienza applicata. Il problema della libertà di ricerca apparentemente non dovrebbe sussistere. Tutti ritengono infatti che la nascita della scienza moderna nell'epoca rinascimentale, con Galileo in particolare, abbia costituito un'autentica conquista dell'umanità, non soltanto perché ha portato nuove conoscenze, nuove applicazioni, ma, soprattutto, perché ha significato la rivendicazione della libertà di pensiero, della libertà di ricerca. E' chiaro allora che il problema che si pone oggi non è semplicemente quello di valutare fino a che punto si possa frenare l'applicazione scientifica, l'acquisizione di nuove conoscenze scientifiche. Ci si chiede piuttosto, in modo più radicale, se non c'è il rischio di tornare ad una involuzione della mentalità dell'Occidente verso forme di oscurantismo. Come deve essere posta invece la questione? Mi sembra allora che il problema non sia chiaramente formulabile se non si distinguono alcuni aspetti. Quando si parla di libertà di ricerca probabilmente si intende in un primo senso sottolineare l'autonomia che ogni disciplina ha all'interno del suo campo. Autonomia significa che spetta a ogni singola disciplina determinare all'interno del proprio ambito quali sono i criteri di accertamento dei dati e di validità delle spiegazioni. La libertà di ricerca coinvolge in particolare il rispetto di questi confini, ma può coinvolgere anche qualche cosa di più: finché lo scienziato svolge la sua ricerca bisogna che sia completamente libero di fare quello che vuole. E' proprio su questo punto che si innesta un problema di estrema difficoltà, perché c'è una differenza tra il conoscere e il fare e la scienza non è semplicemente un conoscere. Non basta
l'osservazione per fare scienza, e ancor meno per fare tecnologia; bisogna anche operare. E, se non esistono conoscenze o verità moralmente vietate, tutte le azioni umane sottostanno invece al giudizio del lecito o dell'illecito. Quindi anche quelle azioni che vengono poste in atto per realizzare la conoscenza scientifica o il progresso tecnologico possono essere oggetto di valutazione morale e perciò eventualmente anche di limitazioni. E la scienza pura, che non si pone altra prospettiva che la ricerca del vero, è esente da giudizi e limitazioni morali? Mentre è chiaro che la scienza applicata non potrebbe esserlo, per le conseguenze a cui può condurre, anche la scienza pura, nonostante le apparenze, non è esente da considerazioni e da limitazioni di carattere morale, poiché soltanto il fine della scienza - la conoscenza della verità - è assolutamente lecito, o persino meritevole, dal punto di vista morale. Si dice perciò che non si deve pretendere di esercitare altre forme di giudizio morale sulla scienza pura. Ma questo non basta perché una azione, dal punto di vista morale, va giudicata non solo tenendo presenti i suoi fini, ma anche i mezzi, le circostanze, le conseguenze. Per esempio nell'ambito della scienza sperimentale non basta pensare o guardare, bisogna invece fare, manipolare, disporre dell'oggetto della ricerca secondo le intenzioni del ricercatore. Non c'è niente di pregiudizialmente negativo o sinistro, dunque, nell'idea del manipolare, e tuttavia si fa qualche cosa su ciò che è oggetto di studio. Oggi si discute moltissimo se sia o non sia lecito sperimentare su embrioni; è un altro caso in cui, anche se il fine è l'acquisizione della verità, o, sul versante pratico, la scoperta di terapie utili, il mezzo, cioè lo sperimentare su embrioni, può essere legittimamente sottoposto a discussioni morali e quindi eventualmente si può dire che questo caso non è lecito. Dobbiamo concludere quindi che l'attività dello scienziato e del tecnologo dev'essere sottoposta al diritto d'intervento e di censura di chi è più competente di lui in fatto di morale, del moralista o magari del teologo? Questa è una conseguenza troppo affrettata. Non si tratta di dire che l'attività dello scienziato e del tecnologo debbono stare sotto tutela di altri, ma si tratta di riconoscere che la competenza necessaria per dirigere il corso della scienza e della tecnica non si trova totalmente all'interno della scienza e della tecnica. In realtà ciò che conta è riconoscere che c'è una sfera della riflessione umana che è la morale, la quale si occupa specificamente delle norme dell'azione umana, del dover essere e del dover fare, degli obblighi e dei valori. E' chiaro che ci sono anche persone che si occupano in modo particolare di questi problemi, e che, verosimilmente, nell'analisi di essi raggiungono un livello di approfondimento superiore a quello che viene raggiunto da altri, compresi gli scienziati e i tecnologi, però questo non significa che queste persone, se attingono i loro criteri di moralità in una religione, abbiano poi il diritto di imporre agli altri un
giudizio di valore. L'obiettivo è, secondo me, quello di un feedback fra tutti, perché anche il moralista e il teologo sono, come gli scienziati e i tecnologi, per così dire "specialisti" che hanno una competenza riconosciuta e riconoscibile, ma limitata. Allora in particolare quando si tratta di passare dal discorso generale della morale, che riguarda gli obblighi, i doveri, i valori, le norme, ai discorsi concreti, particolari che riguardano ad esempio l'esercizio di una certa attività scientifica, di una certa realizzazione tecnologica, di una certa pratica sperimentale, di una certa terapia, di una certa manipolazione, non basta avere in generale il principio, sia esso un principio morale generale, sia esso un principio di ispirazione religiosa; bisogna invece applicarlo alle situazioni concrete. Allora è chiaro in questo caso che inevitabilmente la competenza del moralista o anche del teologo, non può da sola trovare soluzioni, se non si integra con il feedback che proviene dalla competenza scientifica e tecnologica. Ma il problema è soprattutto questo: anche l'elaborazione di norme, di principi morali da parte degli specialisti non può diventare operativa se non nel momento in cui è accolta dalla coscienza di ciascuno. Alla coscienza dello scienziato, del tecnologo, di chi si avvale delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, nessuno può imporre un imperativo che non sia accettato dalla coscienza stessa. E' semplicemente un aiuto che può venire dal competente a chiarire il problema e a precisare i termini di una scelta che deve poi sempre restare una scelta di coscienza individuale. Su quale base allora potrebbe istituirsi questa regolamentazione morale dell'attività scientifica e tecnologica? Ritengo che qui il concetto-cardine sia quello di "responsabilità", perché quella della responsabilità è l'unica figura che può conciliare contemporaneamente la libertà da una parte e il rispetto di una norma morale dall'altra. Infatti non ha senso parlare di responsabilità se non si è liberi; una persona che non è libera non può essere responsabile di quello che fa. Proprio perché ha potuto liberamente scegliere quello che ha fatto poi possiamo ritenere una persona responsabile di ciò che ha fatto. Questa libertà è però una libertà di scelta tra qualcosa che è dovuto e qualcosa che è vietato; l'aspetto della norma, dell'obbligo morale entra nella considerazione della responsabilità. Norma e obbligo devono quindi essere accettati e riconosciuti dalla coscienza. Quindi nel concetto di responsabilità è presente, come abbiamo visto, il riconoscimento che non tutto si può legittimamente fare e che è alla mia libertà che viene proposto il limite che io stesso debbo moralmente imporre alle mie azioni e quindi alla stessa libertà di azione. Chi altro dunque deve assumersi questa responsabilità? Questo è appunto un discorso che riguarda tutti; apparentemente quello che ho detto potrebbe essere interpretato con l'idea che, per non togliere la libertà alla scienza e
alla tecnica e, nello stesso tempo, salvare il rispetto delle esigenze morali, sociali e politiche, dobbiamo caricare sulle spalle della comunità scientifica la responsabilità di ciò che fa. La soluzione è sbagliata per diverse ragioni; anzitutto perché gli scienziati e i tecnologi non sono competenti rispetto al bene e al male più di quanto lo siano gli altri. Allora è chiaro che questa responsabilità non può essere caricata sulle loro spalle con la pretesa che debbano, all'interno del loro ambito di competenza e soltanto in quello, risolvere questo tipo di problemi. E' infatti proprio attraverso un coinvolgimento della loro presenza e della loro attività rispetto a tutto il contesto della società umana che ricevono quei feedback di cui ho parlato. Ma bisogna considerare un altro elemento: la comunità scientifica, tecnologica ha già, per il fatto di sapere certe cose, un potere così forte che non sarebbe saggio per l'umanità aggiungere a questo potere, che deriva dal conoscere, anche l'ulteriore potere che deriva dal decidere che cosa fare di queste conoscenze. Ciò significherebbe davvero consegnarci ad una tecnocrazia elevata al quadrato e non abbiamo certamente bisogno di fare questa scelta. Qual è allora la soluzione? Tutti dobbiamo sentirci responsabili non solo dell'esercizio delle nostre attività, ma anche dell'esercizio delle attività degli altri, cioè anche di un esercizio della scienza e della tecnica, che sia conforme alle esigenze morali, sociali e politiche della nostra società. E' perciò l'idea di partecipazione quella che mi sembra offrire una possibilità di soluzione; è necessario che ciascuno, come uomo, come cittadino, si senta coinvolto nella gestione responsabile di ciò che costituisce la vita della civiltà contemporanea e quindi del modo con cui viene gestita l'attività di ricerca scientifica e tecnologica con le sue applicazioni. Allora è chiaro che, se all'interno della collettività si suscita questo ethos di una gestione responsabile da parte di tutti, anche la comunità scientifica, senza essere caricata ingiustamente dell'intera responsabilità di una gestione corretta della scienza e della tecnica, aiuterà a percorrere questa stessa strada.
 
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2 replies since 14/11/2006, 09:34   4186 views
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