Ecclesia Dei. Cattolici Apostolici Romani

Quale corpo il Signore mi darà dopo la morte?, di don Divo Barsotti

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dante pastorelli
view post Posted on 28/5/2006, 13:07 by: dante pastorelli     +1   -1




L’addio a don Divo Barsotti

IN MORTE D’UN PATRIARCA

di Dante Pastorelli

Patriarca: con questo appellativo m’ero rivolto a don Divo Barsotti dalle pagine di questo bollettino (Anno II N.1, Gennaio-Maggio 2003) nel doveroso, filiale ringraziamento per aver Egli incoraggiato la battaglia di “Una Voce” scrivendo per il nostro modesto organo uno dei Suoi brevi ma densi ed illuminanti articoli, fors’anche uno degli ultimi, “Siamo figli dei Padri”: un innamorato inno alla lingua latina pressoché scomparsa dalla liturgia cattolica, tesoro bimillenario della Chiesa, elemento unificante di un’immensa famiglia sparsa ed attiva in tutti i continenti, i cui membri si sentivano figli dello stesso unico e vero Padre, segno di fraternità nell’unica vera Chiesa di Cristo, di fedeltà alle proprie radici ed alla propria identità di un “popolo” per tanti versi eterogeneo che non voleva e non vuol morire al suo passato: un passato senza il quale il presente si sbriciola in tutte le sue più significative e apparentemente solide costruzioni.
Patriarca: avrei potuto definirlo a buon diritto “profeta”, ma non intendevo porLo accanto alla fitta schiera di falsi “profeti”, urlanti voci del nichilismo religioso o dell’anti-Chiesa di cui Firenze ha abbondato, i Balducci, i Turoldo, i Rosadoni, i Mazzi (la cui screditata e rosseggiante fiaccola oggi è passata ai vari Santoro, Stinghi e tragicamente folcloristica compagnia); per la reverenza che incutevano la sua santa canizie, l’intera vita consacrata al Signore, una ininterrotta orante salmodia che affiorava anche nel sorriso di già distaccato dalla terra, come l’ultima foglia d’autunno dal ramo, ed aperto sull’eternità con cui accoglieva coloro che, come me, hanno avuto la fortuna di conoscerlo e restar segnati per sempre dalle sue parole semplici ma che incidevano profondamente nell’anima.
Il 15 febbraio u.s. il novantaduenne Patriarca, il quale s’è consumato come una lampada che troppo a lungo e troppo intensamente ha illuminato l’altare sul quale rinnovava quotidianamente il Sacrificio della Croce, è dolcemente spirato nel suo “eremo” di Settignano, Casa San Sergio, intitolata ad una delle più eminenti personalità del monachesimo russo, S. Sergio di Radonez, lasciando in una serena e virile, non ostentata tristezza la sua numerosa famiglia: i suoi monaci, che gli erano intorno nell’ora del trapasso, ed i membri laici della Comunità dei Figli di Dio da lui fondata oltre mezzo secolo fa, cui ha trasmesso una spiritualità incentrata, oltre che sulla preghiera, sulla contemplazione, sul silenzio, sull’esercizio delle virtù teologali nella solitudine e nel fracasso del mondo: non può esservi rottura fra preghiera e azione, che devon coesistere in indissolubile unità. In Gesù, afferma don Barsotti, la vita con gli uomini è unione col Padre.
Ma la Sua partenza per il luogo dove ha ricevuto il premio riservato a chi abbia combattuto la buona battaglia, è una separazione meramente umana: la lampada spentasi in terra si è riaccesa infinitamente più ardente e luminosa, inestinguibile perché nutrita d’un olio più prezioso, inesauribile sgorgante dalla totale, adorante immersione nella SS. Trinità e fra le materne braccia della tanto amata Vergine Maria. E tale paradisiaca luce d’ora in poi sarà il faro non illusorio che indica il porto quieto a chi persevererà nell’impegnativo cammino di apostolato in gioiosa povertà, e a chi si sentirà chiamato ad intraprenderlo, alla sequela dell’insigne mistico toscano.
Il 21 febbraio, nella basilica della SS. Annunziata, alla presenza di oltre 1500 fedeli, si son svolte le solenni esequie del venerando Padre, celebrate dal cardinale E. Antonelli, arcivescovo di Firenze, attorniato da quasi tutti i Vescovi della regione, da mons. G. Mana, Vescovo di Biella, dove opera una comunità guidata dai religiosi di don Divo e da mons. C. Naro, arcivescovo di Monreale che dell’Ordine dei Figli di Dio è membro, e da un folto gruppo di sacerdoti.
Il cardinale ha tenuto un’omelia non retorica, non tesa, quindi, come sarebbe stato anche naturale, ad enfatizzare, a fini emozionali, l’impegno e gli esiti dell’ “operaio della vigna” robusto e virtuoso, dello scrittore, del teologo, del poeta autore di oltre 150 volumi, del predicatore, del professore, sibbene molto sapientemente articolata in un felice florilegio di meditazioni di don Divo, letteralmente citate, da cui spiravano il sublime ascetismo, il continuo colloquio con Dio, l’anelito ad una sempre più perfetta incorporazione a Cristo di questa straordinaria figura di sacerdote circonfuso, da tanti anni ormai, di un’aura quasi soprannaturale, e perciò affascinante specie per i giovani, nel vivere e testimoniare una fede antica e sempre nuova, lontana mille miglia dalle mode teologiche e dalle devastanti riforme che lo lasciavano sgomento, pur nell’abbandonarsi fiducioso alla volontà superiore.
E’ sufficiente sfogliare il volume Una Comunità e il suo fondatore (Don Divo Barsotti e la Comunità dei Figli di Dio), Settignano-Firenze 2004, edito e distribuito, come tutte le altre opere del nostro Patriarca, dalla stessa Comunità, per rendersi conto della lucidità e della lungimiranza con cui egli percepiva ed inquadrava la crisi della o nella Chiesa: ad un prete amico ebbe a confessare che la Chiesa attuale gli appariva come una costruzione di carta sull’orlo del crollo alla prima forte ventata. Ma Lui sapeva che dietro e sopra gli uomini di Chiesa c’è Cristo, e che solo Cristo è la pietra angolare su cui incrollabilmente la Chiesa è edificata.
Leggiamo, dalle pp.100-103, solo alcuni brevi passi sul Vaticano II e sull’ecumenismo:

“Sin dalla prima sessione [del Concilio] si vide dove le cose andavano a parare, con l’accantonamento sdegnoso di tutti gli schemi preparati. Inoltre, i vescovi dissero subito che non intendevano condannare nessuno: il che significava però rinunciare al loro servizio di maestri della fede, di depositari della Rivelazione divina. I vescovi non devono sostituire i teologi, che hanno un’altra funzione: l’episcopato deve dirci che cosa dobbiamo credere e che cosa dobbiamo rifiutare. [...] Poiché i vescovi non misero al primo posto la loro funzione di approvare o di condannare, i documenti del Vaticano II hanno un linguaggio più teologico che dottrinale. Addirittura, per esempio in certe pagine della ‘Gaudium et Spes’, c’è come un ragionare da sociologi, da giornalisti. Inoltre, nei documenti ci si imbatte in tre o quattro teologie diverse. Per esempio: il primo documento [del Concilio], quello sulla liturgia, ha solo una visione misterica; l’ultimo, quello sui rapporti tra Chiesa e mondo, è segnato da un certo ‘theillardismo’. Aspettiamo ancora un genio della teologia che sappia fare una sintesi fra queste differenze. Dunque il Vaticano II è stato un errore? No, di certo: la Chiesa aveva bisogno di confrontarsi con la cultura del mondo, e lo Spirito Santo ha impedito che nei documenti si insinuasse l’errore; ma anche se tutto è giusto, nel Vaticano II, non è detto che tutto sia stato opportuno”.
“Nei confronti delle altre religioni occorre instaurare indubbiamente un dialogo, (…) ma volere estendere il tavolo del dialogo a tutti a me fa paura. L’ho scritto al papa, due volte, che non vedevo di buon occhio l’incontro interreligioso di Assisi dell’ottobre 1986. Gli dissi: ‘Santità, io non ho la televisione in casa, non ho nemmeno la radio, ma il giorno dopo il convegno di Assisi su ‘Avvenire’ ho visto in prima pagina una fotografia che mostra i cattolici che venerano il Dalai Lama, come fanno con Vostra Santità’. Si rischia di non fare più differenza: il Dalai Lama è come il papa per tanti credenti, e allora il popolo non può più avvertire le differenze né rendersi conto di quello che è specifico del cristianesimo nei confronti loro”.

Anche la critica, costruttiva, appassionata, benché amara, è segno tangibile di fedeltà assoluta ma razionale. Non esiste per don Divo un Dio indistinto, cosmico, di matrice agnostica, massonica, ma soltanto Gesù, il Dio incarnato per redimere gli uomini, con la sua nuova ed eterna Alleanza. Avrebbe forse, don Divo, voluto spingersi oltre ed aggiungere che il Dalai Lama non solo per i suoi è il papa, ma un vero idolo vivente. Ha, però, preferito sempre restare un gradino al di sotto per non urtare la sensibilità pontificia.
Ed a lui è stato risparmiato un più atroce strazio: la visione d’una statua di Buddha posta sull’altare accanto al SS.mo Sacramento, alla quale i cattolici, anche sacerdoti, s’inchinavano, di polli sgozzati sull’altare di Santa Chiara, di vescovi benedetti da stregoni ( e, in altre occasioni, d’un Papa “segnato” da una sacerdotessa di Shiva o avallante, coscientemente o incoscientemente, col suo bacio la “sacralità” d’un verde Corano), e via offendendo Nostro Signore.
In cosa consiste, allora, la differenza sostanziale tra il Cristianesimo ed le altre religioni?

“Si parla soltanto di Dio, lo vediamo nell’ebraismo come nell’islam, ebbene Dio diventa soltanto una nozione filosofica, non è più il Dio vivente. Il nostro, il Dio cristiano, è un Dio che fa l’inconcepibile. Maometto invece non può raggiungere Allah, deve fermarsi col cavallo a distanza, perché il suo Dio e trascendente, è solitudine, è silenzio. Per me cristiano, dunque, Dio ha una forma, ha il volto dell’uomo, e così facendo Egli si è comunicato al mondo (…). Il termine ultimo della storia sarà precisamente questo: il Cristo da un lato, e nulla dall’altro, perché senza il Cristo, Dio rimane inattingibile, incomprensibile e inaccessibile. Rimane puro silenzio. (…)
Il Cristianesimo è innanzitutto una religione rivelata che ha come fondamento la storia, quella di un Uomo venuto sulla terra per realizzare la missione di salvezza affidatagli da Dio, suo Padre, di salvare il mondo. Questa caratteristica indica che la vita religiosa – e perciò quello che nella vita religiosa è l’atto fondamentale, la preghiera – non può essere soltanto un entrare dentro di sé, una ricerca della pace interiore, e nemmeno un’esperienza psicologica. (…)
La preghiera non è assolutamente possibile, quindi, al di fuori del cristianesimo, proprio perché se Dio non è persona con la quale io entro in rapporto, l’atto che io definisco preghiera è un vuoto ricadere in sé stessi, non è affatto dialogo. Questo vale per l’induismo, per il buddismo, ma anche per l’islamismo: in tutte e tre queste religioni Dio è inaccessibile, nella prima perché è impersonale, nella seconda perché se ne prescinde, nella terza perché è trascendenza infinita. Allora non si può mai dialogare con Lui”.

Fermiamoci qui. Le frasi sopra riportate son così limpide ed eloquenti che non necessitano di commento. Coloro che, non pochi ecclesiastici compresi, smarrita la via dell’unica vera religione, cercano altrove o in un blasfemo sincretismo la pace ed una dimensione spirituale più appagante e, a loro avviso, più vicina all’odierna umanità, son serviti: corrono speditamente verso il nulla, magari ammantato diabolicamente di umanitarismo illuministico, di pacifismo stantio e senza carità da “no-global” ante litteram, da un’erronea o incompleta concezione di tolleranza e rispetto. E da questo nulla saranno inghiottiti inesorabilmente insieme al loro indifferentismo.
Eppure dovrebbero, essi, ben sapere che tutti coloro che hanno il Padre, ma non riconoscono il Figlio, non hanno neppure il Padre, come icasticamente argomenta S. Giovanni nella sua Prima Lettera. Ed al Padre si giunge soltanto attraverso il Figlio. Il rifiuto del Figlio comporta necessariamente il rifiuto del Padre.
Per difender la Fede, la sua Fede Cattolica ricevuta dalla Chiesa sin dal Battesimo, alimentata e confermata da secoli di sana speculazione teologica, che ha saputo rielaborare e rivivere in modo personale ma nella costante ed umile adesione al Magistero, nell’orazione e nello svolgimento della precipua funzione ministeriale, la celebrazione della S. Messa come “alter Christus”, don Divo, il corrispondente degli anche troppo esaltati Von Balthasar e De Lubac, di Merton, l’amico di La Pira e di tanti intellettuali fiorentini, tra cui l’apostata Mario Luzi, non esitava a rimproverare, ed aspramente, chi, tra costoro, gli sembrasse addentrarsi in vicoli ciechi come la sua mente appannata dall’inseguir favole profane: così fece con don Dossetti, il quale lo aveva eletto a suo direttore spirituale e andava discettando in modo estremamente critico, direi da iconoclasta, contro l’ “era costantiniana” della Chiesa, la grande filosofia medievale, nel vano vagheggiamento di un ritorno ai Padri, specie orientali, certo non estranei alla cultura ed al misticismo barsottiano, ma convenientemente assorbiti ed armonizzati nell’ambito della retta dottrina di cui niente mai ed in alcun modo veniva posto in dubbio. Don Divo minacciò di troncare ogni rapporto ove il prete politologo non avesse interrotto la consuetudine con lo storico della Chiesa Giuseppe Alberigo, direttore dell’Istituto per le Scienze religiose di Bologna dallo stesso Dossetti fondato, da Lui ritenuto un pericolo gravissimo per la Fede (cfr. Una Comunità e il suo fondatore, cit. p.106).
La gente che assiepava la SS. Annunziata – i suoi “figli” provenivano da varie regioni d’Italia ed anche dall’estero, persino dallo Sry Lanka – ha seguito tutta la cerimonia del commiato in un clima di composta commozione che si coglieva negli sguardi, negli occhi gonfi, nei volti rigati da qualche lacrima, di compresa partecipazione, di autentica venerazione. Quest’atmosfera ha raggiunto l’apice, in un silenzio quasi sovrumano, quando l’amico padre Serafino Tognetti, il superiore della Comunità, ha dato lettura, con voce ferma pur nell’emozione dell’austero momento, del testamento spirituale del defunto Fondatore, improntato ad ineguagliabile semplicità: in esso v’è il preciso mandato ai Suoi discepoli a proseguire il loro percorso di amore, di servizio e donazione completa al Signore ed ai fratelli, insieme alla promessa d’una pressante intercessione presso il Padre celeste e di una sua ancor più paterna e vigile guida per le vie dell’evangelizzazione-rievangelizzazione e della santificazione del piccolo gregge loro consegnato.
A violare la sacralità della cerimonia, sia pure al suo termine, è intervenuto un applauso inopportuno, per quanto breve e soffocato, al passaggio del feretro nella navata, applauso che don Divo non avrebbe certamente apprezzato: un recente (mal)costume profano che Lui disdegnava.
A padre Serafino Tognetti, ai suoi confratelli, ai seminaristi e a tutti i membri della Comunità rinnoviamo da queste pagine le nostre affettuose condoglianze, con la conferma della nostra preghiera, della nostra vicinanza e con l’incoraggiamento fraterno a procedere secondo le intenzioni del loro “Padre”.
Vogliamo concludere il nostro saluto al Patriarca - nella certezza che se gli uomini, anche i grandi Maestri, passano, la loro testimonianza ed il loro insegnamento restano integri nel tempo, continuano a gettar nella terra il seme buono ed a fruttificare in abbondanza, come il seme del grano che viene interrato perché rifiorisca nella spiga - con alcune Sue indimenticabili parole: “Mi sento, ovunque sono, in esilio, e sento che non raggiungo nessuno se non in Dio. La vera vita è altrove - Altrove “il luogo” dell’incontro. Altrove, eppure è qui – nella Presenza ogni lontananza è distrutta” (Diario 1993).
Il lungo esilio è terminato: Egli è entrato nell’eterna Gerusalemme che non ha mura né porte, purissimo regno di “luce intellettual piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore”. (Paradiso, c. XXX, vv. 39-42).

(da UNA VOCE DICENTES, A. V N. 1 – gennaio-aprile 2006)
 
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