Ecclesia Dei. Cattolici Apostolici Romani

Quale corpo il Signore mi darà dopo la morte?, di don Divo Barsotti

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Raimundus
view post Posted on 15/5/2006, 20:48     +1   -1




Quale corpo il Signore mi darà dopo la morte?
di don Divo Barsotti


La risurrezione suppone la morte, il trionfo del Cristo il giudizio. Sono verità di fede elementari, e pur tuttavia, proprio perché sono elementari, non sono solo importanti ma fondamentali anch'esse per la nostra vita spirituale. È sempre il Mistero del Cristo: morte e risurrezione; e non vi è un elemento senza l'altro. La morte da sola non sarebbe mai, né potrebbe essere mai un argomento di meditazione per il cristiano, perché la morte è soltanto condizione alla risurrezione gloriosa; d'altra parte la risurrezione è impensabile senza la morte. I due elementi si richiamano l'un l'altro cosicché non possiamo meditare l'uno senza l'altro. È vero però che possiamo separarli, non per mantenerli divisi, ma perché la nostra meditazione abbia una maggiore ampiezza, infatti potrebbe essere soltanto un poco di curiosità teologica il meditare sul giudizio finale o sulla fine del mondo, mentre su tutti noi incombe la morte.

Tra poco noi moriremo. Che vuol dire morire? Che cos'è la morte? La prima considerazione da farsi sembra questa: l'uomo è un essere estremamente paradossale. Per il fatto che siamo in un corpo, indipendentemente dal peccato, sembra non potersi evitare la morte. Quel che è fisico, quello che è biologico non può durare eternamente, consuma. D'altra parte sarebbe non solo impensabile ma del tutto miracoloso (è un miracolo che non ha nessuna giustificazione e che a lungo andare andrebbe precisamente contro gli stessi voleri di Dio) che questo corpo vivente non conoscesse la dissoluzione. Sarebbero innumerevoli miracoli quelli che Dio dovrebbe fare perché questo essere che abbiamo, il corpo, dovesse mantenersi vivo senza fine. Non vi è esempio di questo nella natura: nemmeno le montagne rimangono ferme, nemmeno il sole e gli astri sono eterni. Una forza unica travaglia tutto l'universo fisico in mutamenti continui, in rivolgimenti inevitabili. È proprio il cambiamento stesso che assicura la permanenza. Non vi è nulla di permanente quaggiù se non il movimento.

Da una parte, dunque, il paradosso di un uomo che è corpo ed è spirito. Per quanto riguarda il corpo secondo la filosofia marxista, non solo, ma anche direi secondo la reazione spontanea e naturale degli uomini che hanno perso la fede, è naturale la morte; non c'è lo scandalo della morte per loro. Accettano di morire non pensandoci, cercando di esorcizzarsi nei confronti dello sgomento, della paura che l'uomo ne prova, col non pensarci. Non c'è nulla da fare, la morte è inevitabile ed è naturale per questo. Dall'altra parte però, rimane vero che l'uomo non è soltanto un corpo organico, è anche spirito, e proprio in forza del fatto che è anche spirito, l'uomo non riesce ad accettare la morte, né può accettarla. Si prova nei confronti della morte una opposizione naturale, spontanea. Non per nulla, si diceva prima, si cerca di dimenticare, si accetta per principio, ma poi non si vuol ricordare, perché poi l'insorgere naturale dello spirito è anche esso inevitabile.

E allora Dio ci ha creati male? Ci ha dato nello stesso tempo un corpo che di per se stesso è soggetto alla morte e uno spirito che non può morire. Come mai ha unito queste due cose così stranamente diverse?
Secondo la Genesi, Dio riveste l'uomo di pelli morte cacciandolo dal Paradiso terrestre. E secondo l'interpretazione che dà il rabbinismo, il passo della Genesi vuol significare che dopo il peccato Dio sottopone alla morte l'uomo - e questo è vero anche per noi - dandogli un corpo che ora soltanto è mortale. Il nostro corpo che possediamo oggi non è il corpo che Dio ci ha dato all'inizio. Creati per l'immortalità, noi non potevamo avere un corpo passibile. Il corpo passibile che anche riceve Gesù, lo riceve in vista della morte; se il corpo è passibile è destinato a morire. Se dunque Adamo ed Eva prima del peccato non dovevano morire, vuol dire che avevano un altro corpo da quello che abbiamo noi ora. Questo l'insegnamento di Israele, e Israele ci dice appunto che questo corpo fu dato l'uomo dopo il peccato.

E Dio ha dato all'uomo questo corpo mortale non per castigo ma per suprema misericordia. Dio ci aveva fatto per l'immortalità, e facendoci per l'immortalità non poteva donarci un corpo mortale: il corpo mortale diviene tale dopo il peccato. E allora ecco, noi vediamo precisamente nella nostra condizione umana una situazione veramente paradossale: sul piano fisico, sul piano biologico noi andiamo verso la morte, ma l'andare verso la morte non vuol dire morire, sembra anzi acuire, per colui che ha una vita spirituale, la potenza di vita che Dio ha inserito nella nostra natura. Sembra di fatto, che proprio andando verso la morte l'uomo viva. Non si vive a vent'anni, tranne alcune eccezioni, e nemmeno a venticinque; non si vive, siamo portati via dagli istinti, siamo portati via da tutte le piccole ambizioni, le vanità, gli egoismi, la sensualità, l'uomo non prende ancora coscienza di sé, del proprio destino, dei proprio valore, della propria grandezza. L'uomo incomincia a vivere invecchiando; è una cosa strana, ma si vive invecchiando, nella misura cioè che questo corpo, che doveva essere strumento dello spirito, esprime minori esigenze, non pesa più, e non diviene più qualche cosa che impedisce allo spirito di vivere la sua vita.

Si muore. Ma che cosa vuol dire per noi morire? Vuol dire deporre un corpo che non è evidentemente per l'immortalità. E dunque la morte non è un male, perché ci libera da uno strumento che è inetto a una vita pienamente umana e veramente spirituale. Non è l'anima che non sia fatta per il corpo: l'anima umana è forma corporis, è principio vitale di un corpo ma, si direbbe, non di questo corpo, perché sembra anzi che l'anima tanto più viva quanto meno il corpo pretende, esige, s'impone nella sua forza, nella violenza dei suoi istinti.

Però nessuno ci assicura l'altro corpo tranne la Rivelazione divina. Di qui lo sgomento che ci prende perché sul piano umano, naturale, nessuno ci assicura un nostro permanere, perché è vero che vi sono due vite: una vita dello spirito e una vita del corpo, però rimane vero anche che la vita stessa dello spirito ha bisogno del corpo, cioè è lo spirito umano, l'anima umana è forma corporis e perciò io non posso capire nemmeno il mio permanere nella vita senza il corpo. Quale corpo il Signore mi darà? È tutto qui, direi, il problema della morte. Quale corpo il Signore mi darà.

Nel cristianesimo non c'è la rivelazione dell'immortalità quanto c'è la rivelazione della risurrezione. Perché? Che cos'è questo mistero? Evidentemente ci voleva proprio l'evento della risurrezione del Cristo per ridonare agli uomini non solo la speranza, ma la certezza che si sarebbero risolti, per l'uomo, tutti i tragici interrogativi, problemi, angosce, turbamenti che la sua vita stessa origina per lui.
Dice il libro della Sapienza che la morte è entrata nel mondo per il peccato; se noi fossimo dovuti rimanere sempre nel corpo senza morire avremmo vissuto, sì, una vita immortale in un corpo adatto alla immortalità, però in questa immortalità noi avremmo vissuto in tal modo da non sentire precisamente la tragedia che è propria della vita di oggi, la tragedia cioè di una vita immortale che dobbiamo attendere soltanto da Dio dopo la remissione del nostro peccato, anzi, come compimento di una redenzione dal nostro peccato.

Oggi l'immortalità viene a noi come dono che è perdono e grazia divina, mentre l'immortalità di prima, dopo il peccato, sarebbe stata per l'uomo non più salvezza, non più redenzione, ma un fissarsi nella sua condizione di peccato e di lontananza da Dio. Ma meditando la morte dobbiamo riconoscere ed accettare lo sgomento, l'angoscia, il rifiuto della nostra natura. È vero che il nostro corpo ci fa necessariamente schiavi della morte, ci fa naturalmente retaggio della morte, ma questo non toglie che nella misura che viviamo, tutto l'essere nostro debba ribellarsi a questo destino. E questo è tanto vero che perfino la Umanità sacrosanta del Verbo, il Cristo, prova ripugnanza a morire, si vuol sottrarre alla morte e per questo prega il Padre celeste. Non siamo fatti per la morte, tutto in noi dice che siamo fatti per la vita e per la vita divina, per la vita immortale, per una vita senza fine, e proprio il fatto di essere fatti per questa vita senza fine crea in noi una tensione e suscita in noi una reazione viva nei confronti della morte che viene.

Dobbiamo vederla come castigo o come medicina? Molto spesso noi si parla della morte come castigo. Ma se stando alla interpretazione rabbinica e anche dei Padri greci, la morte viene a noi dopo il dono che il Padre ci fa delle pelli morte, evidentemente non è soltanto un castigo, e dobbiamo dire di più: che Dio non castiga mai altro che il rifiuto ultimo, se c'è un rifiuto da parte dell'uomo che si chiude in se stesso, positivamente Dio non interviene mai per dare la morte. Per dare le medicine sì. C'è l'inferno, intendiamoci, ma l'inferno dipende dal fatto che l'uomo nella sua volontà si chiude alla misericordia, rifiuta i doni di Dio. È antropomorfico quello che dice il Vangelo «Andate maledetti al fuoco eterno». Dio non interviene positivamente nella condanna; nella condanna è l'uomo che si chiude, che si trincera difendendosi da Dio, Dio rimane l'amore. Se l’uomo avesse la capacità di aprirsi anche un istante solo alla misericordia, l’inferno si vuoterebbe immediatamente. È che lo spirito umano, e più lo spirito angelico, una volta che si è fissato nel peccato, rifiuta Dio e in questo rifiuto rimane. L’inferno è voluto soltanto dall’uomo che si è piegato ai beni terreni, l’uomo che si è chiuso in se stesso in un sentimento di autosufficienza, che ha voluto essere dio per sé contro Dio, non può liberarsi dal suo peccato senza pena.

Il dolore, la pena, la sofferenza, questi Dio li può volere, ma li può volere proprio per liberare l’uomo da questi legami, da questo chiudersi in sé, da questo peccato che lo difende nei confronti della grazia divina. La morte dunque non è un male. È vero che la morte è venuta per volontà di Dio e per il peccato dell’uomo, ma Dio dona la morte proprio dopo il peccato; e la morte data da Dio all’uomo come pena di peccato diviene anche la medicina per il peccato. Che cos’è il dolore e la pena nei confronti dell’uomo peccatore? Sono veramente il cammino per il quale l’uomo si scioglie, si libera dai legami dal proprio egoismo, dalla propria sensualità, dalla propria autosufficienza, dal proprio orgoglio, e si riapre a Dio. Col peccato si è chiuso, si è barricato contro la grazia; col peccato l’uomo ha voluto crearsi una sua autonomia, una sua autosufficienza nei confronti della misericordia infinita; col peccato l’uomo ha scelto sé contro Dio, si è opposto a Dio; l’uomo non può aprirsi senza che l’apertura di questa chiusura ermetica in cui egli si è difeso provochi una ferita.

Non c’è la possibilità per l’uomo di riaprirsi a Dio senza strapparsi a questo orgoglio e proprio per questo, allora l’estrema apertura a Dio è rappresentata dalla morte. Ecco perché, in fondo, non si può godere Dio, vedere Dio, senza morire. È impossibile per noi pretendere che il dono supremo a Dio possa venirci senza questa suprema apertura all’essere che la morte opera. Perché in fondo il nostro corpo mortale è una difesa contro l’amore divino e anche contro l’amore per gli altri. La morte, così, diviene la suprema medicina. Dobbiamo considerare allora il tema della morte entro il tema più ampio della sofferenza umana, di ogni pena umana.

Nessuno vive l’atto supremo della sua vita nella morte se non vive nella morte un atto di amore. Fa parte precisamente di questo atto supremo del nostro vivere anche il fatto che la morte sia anche la suprema pena, perché veramente vuol dire sradicarsi totalmente da sé. Tutta la vita di ogni uomo non ha altro termine che questa visione nella resurrezione ultima. È evidente che noi dobbiamo vivere anche la nostra vita precisamente come consentendo a che essa sia questo nostro cammino, un cammino verso la morte. Non per rassegnarci: la rassegnazione non è virtù cristiana. Uno che si rassegna già per questo fatto non è cristiano. Che vuol dire rassegnarsi? Se si tratta della volontà di Dio, si deve amare questa volontà, si deve abbracciare con gioia e per superare la pena istintiva che certi avvenimenti ci danno, superarla d’impeto, in un amore che tende all’unione al di là della pena. Vi è un aspetto che dovremo tener presente attraverso proprio questa mortificazione, per la quale ci sciogliamo sempre più dai legami a una condizione terrestre, vi è una libertà che noi andiamo possedendo, una vita sempre più piena alla quale noi ci avviamo, ed è proprio questa vita che nella morte poi si farà piena ed eterna, una vita che risponde precisamente alle esigenze dell’anima umana. Certo che l’anima umana vivrà in un altro corpo, perché l’anima è sempre forma corporis, ma sarà il corpo della risurrezione, non questo corpo mortale.

 
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dante pastorelli
view post Posted on 28/5/2006, 13:07     +1   -1




L’addio a don Divo Barsotti

IN MORTE D’UN PATRIARCA

di Dante Pastorelli

Patriarca: con questo appellativo m’ero rivolto a don Divo Barsotti dalle pagine di questo bollettino (Anno II N.1, Gennaio-Maggio 2003) nel doveroso, filiale ringraziamento per aver Egli incoraggiato la battaglia di “Una Voce” scrivendo per il nostro modesto organo uno dei Suoi brevi ma densi ed illuminanti articoli, fors’anche uno degli ultimi, “Siamo figli dei Padri”: un innamorato inno alla lingua latina pressoché scomparsa dalla liturgia cattolica, tesoro bimillenario della Chiesa, elemento unificante di un’immensa famiglia sparsa ed attiva in tutti i continenti, i cui membri si sentivano figli dello stesso unico e vero Padre, segno di fraternità nell’unica vera Chiesa di Cristo, di fedeltà alle proprie radici ed alla propria identità di un “popolo” per tanti versi eterogeneo che non voleva e non vuol morire al suo passato: un passato senza il quale il presente si sbriciola in tutte le sue più significative e apparentemente solide costruzioni.
Patriarca: avrei potuto definirlo a buon diritto “profeta”, ma non intendevo porLo accanto alla fitta schiera di falsi “profeti”, urlanti voci del nichilismo religioso o dell’anti-Chiesa di cui Firenze ha abbondato, i Balducci, i Turoldo, i Rosadoni, i Mazzi (la cui screditata e rosseggiante fiaccola oggi è passata ai vari Santoro, Stinghi e tragicamente folcloristica compagnia); per la reverenza che incutevano la sua santa canizie, l’intera vita consacrata al Signore, una ininterrotta orante salmodia che affiorava anche nel sorriso di già distaccato dalla terra, come l’ultima foglia d’autunno dal ramo, ed aperto sull’eternità con cui accoglieva coloro che, come me, hanno avuto la fortuna di conoscerlo e restar segnati per sempre dalle sue parole semplici ma che incidevano profondamente nell’anima.
Il 15 febbraio u.s. il novantaduenne Patriarca, il quale s’è consumato come una lampada che troppo a lungo e troppo intensamente ha illuminato l’altare sul quale rinnovava quotidianamente il Sacrificio della Croce, è dolcemente spirato nel suo “eremo” di Settignano, Casa San Sergio, intitolata ad una delle più eminenti personalità del monachesimo russo, S. Sergio di Radonez, lasciando in una serena e virile, non ostentata tristezza la sua numerosa famiglia: i suoi monaci, che gli erano intorno nell’ora del trapasso, ed i membri laici della Comunità dei Figli di Dio da lui fondata oltre mezzo secolo fa, cui ha trasmesso una spiritualità incentrata, oltre che sulla preghiera, sulla contemplazione, sul silenzio, sull’esercizio delle virtù teologali nella solitudine e nel fracasso del mondo: non può esservi rottura fra preghiera e azione, che devon coesistere in indissolubile unità. In Gesù, afferma don Barsotti, la vita con gli uomini è unione col Padre.
Ma la Sua partenza per il luogo dove ha ricevuto il premio riservato a chi abbia combattuto la buona battaglia, è una separazione meramente umana: la lampada spentasi in terra si è riaccesa infinitamente più ardente e luminosa, inestinguibile perché nutrita d’un olio più prezioso, inesauribile sgorgante dalla totale, adorante immersione nella SS. Trinità e fra le materne braccia della tanto amata Vergine Maria. E tale paradisiaca luce d’ora in poi sarà il faro non illusorio che indica il porto quieto a chi persevererà nell’impegnativo cammino di apostolato in gioiosa povertà, e a chi si sentirà chiamato ad intraprenderlo, alla sequela dell’insigne mistico toscano.
Il 21 febbraio, nella basilica della SS. Annunziata, alla presenza di oltre 1500 fedeli, si son svolte le solenni esequie del venerando Padre, celebrate dal cardinale E. Antonelli, arcivescovo di Firenze, attorniato da quasi tutti i Vescovi della regione, da mons. G. Mana, Vescovo di Biella, dove opera una comunità guidata dai religiosi di don Divo e da mons. C. Naro, arcivescovo di Monreale che dell’Ordine dei Figli di Dio è membro, e da un folto gruppo di sacerdoti.
Il cardinale ha tenuto un’omelia non retorica, non tesa, quindi, come sarebbe stato anche naturale, ad enfatizzare, a fini emozionali, l’impegno e gli esiti dell’ “operaio della vigna” robusto e virtuoso, dello scrittore, del teologo, del poeta autore di oltre 150 volumi, del predicatore, del professore, sibbene molto sapientemente articolata in un felice florilegio di meditazioni di don Divo, letteralmente citate, da cui spiravano il sublime ascetismo, il continuo colloquio con Dio, l’anelito ad una sempre più perfetta incorporazione a Cristo di questa straordinaria figura di sacerdote circonfuso, da tanti anni ormai, di un’aura quasi soprannaturale, e perciò affascinante specie per i giovani, nel vivere e testimoniare una fede antica e sempre nuova, lontana mille miglia dalle mode teologiche e dalle devastanti riforme che lo lasciavano sgomento, pur nell’abbandonarsi fiducioso alla volontà superiore.
E’ sufficiente sfogliare il volume Una Comunità e il suo fondatore (Don Divo Barsotti e la Comunità dei Figli di Dio), Settignano-Firenze 2004, edito e distribuito, come tutte le altre opere del nostro Patriarca, dalla stessa Comunità, per rendersi conto della lucidità e della lungimiranza con cui egli percepiva ed inquadrava la crisi della o nella Chiesa: ad un prete amico ebbe a confessare che la Chiesa attuale gli appariva come una costruzione di carta sull’orlo del crollo alla prima forte ventata. Ma Lui sapeva che dietro e sopra gli uomini di Chiesa c’è Cristo, e che solo Cristo è la pietra angolare su cui incrollabilmente la Chiesa è edificata.
Leggiamo, dalle pp.100-103, solo alcuni brevi passi sul Vaticano II e sull’ecumenismo:

“Sin dalla prima sessione [del Concilio] si vide dove le cose andavano a parare, con l’accantonamento sdegnoso di tutti gli schemi preparati. Inoltre, i vescovi dissero subito che non intendevano condannare nessuno: il che significava però rinunciare al loro servizio di maestri della fede, di depositari della Rivelazione divina. I vescovi non devono sostituire i teologi, che hanno un’altra funzione: l’episcopato deve dirci che cosa dobbiamo credere e che cosa dobbiamo rifiutare. [...] Poiché i vescovi non misero al primo posto la loro funzione di approvare o di condannare, i documenti del Vaticano II hanno un linguaggio più teologico che dottrinale. Addirittura, per esempio in certe pagine della ‘Gaudium et Spes’, c’è come un ragionare da sociologi, da giornalisti. Inoltre, nei documenti ci si imbatte in tre o quattro teologie diverse. Per esempio: il primo documento [del Concilio], quello sulla liturgia, ha solo una visione misterica; l’ultimo, quello sui rapporti tra Chiesa e mondo, è segnato da un certo ‘theillardismo’. Aspettiamo ancora un genio della teologia che sappia fare una sintesi fra queste differenze. Dunque il Vaticano II è stato un errore? No, di certo: la Chiesa aveva bisogno di confrontarsi con la cultura del mondo, e lo Spirito Santo ha impedito che nei documenti si insinuasse l’errore; ma anche se tutto è giusto, nel Vaticano II, non è detto che tutto sia stato opportuno”.
“Nei confronti delle altre religioni occorre instaurare indubbiamente un dialogo, (…) ma volere estendere il tavolo del dialogo a tutti a me fa paura. L’ho scritto al papa, due volte, che non vedevo di buon occhio l’incontro interreligioso di Assisi dell’ottobre 1986. Gli dissi: ‘Santità, io non ho la televisione in casa, non ho nemmeno la radio, ma il giorno dopo il convegno di Assisi su ‘Avvenire’ ho visto in prima pagina una fotografia che mostra i cattolici che venerano il Dalai Lama, come fanno con Vostra Santità’. Si rischia di non fare più differenza: il Dalai Lama è come il papa per tanti credenti, e allora il popolo non può più avvertire le differenze né rendersi conto di quello che è specifico del cristianesimo nei confronti loro”.

Anche la critica, costruttiva, appassionata, benché amara, è segno tangibile di fedeltà assoluta ma razionale. Non esiste per don Divo un Dio indistinto, cosmico, di matrice agnostica, massonica, ma soltanto Gesù, il Dio incarnato per redimere gli uomini, con la sua nuova ed eterna Alleanza. Avrebbe forse, don Divo, voluto spingersi oltre ed aggiungere che il Dalai Lama non solo per i suoi è il papa, ma un vero idolo vivente. Ha, però, preferito sempre restare un gradino al di sotto per non urtare la sensibilità pontificia.
Ed a lui è stato risparmiato un più atroce strazio: la visione d’una statua di Buddha posta sull’altare accanto al SS.mo Sacramento, alla quale i cattolici, anche sacerdoti, s’inchinavano, di polli sgozzati sull’altare di Santa Chiara, di vescovi benedetti da stregoni ( e, in altre occasioni, d’un Papa “segnato” da una sacerdotessa di Shiva o avallante, coscientemente o incoscientemente, col suo bacio la “sacralità” d’un verde Corano), e via offendendo Nostro Signore.
In cosa consiste, allora, la differenza sostanziale tra il Cristianesimo ed le altre religioni?

“Si parla soltanto di Dio, lo vediamo nell’ebraismo come nell’islam, ebbene Dio diventa soltanto una nozione filosofica, non è più il Dio vivente. Il nostro, il Dio cristiano, è un Dio che fa l’inconcepibile. Maometto invece non può raggiungere Allah, deve fermarsi col cavallo a distanza, perché il suo Dio e trascendente, è solitudine, è silenzio. Per me cristiano, dunque, Dio ha una forma, ha il volto dell’uomo, e così facendo Egli si è comunicato al mondo (…). Il termine ultimo della storia sarà precisamente questo: il Cristo da un lato, e nulla dall’altro, perché senza il Cristo, Dio rimane inattingibile, incomprensibile e inaccessibile. Rimane puro silenzio. (…)
Il Cristianesimo è innanzitutto una religione rivelata che ha come fondamento la storia, quella di un Uomo venuto sulla terra per realizzare la missione di salvezza affidatagli da Dio, suo Padre, di salvare il mondo. Questa caratteristica indica che la vita religiosa – e perciò quello che nella vita religiosa è l’atto fondamentale, la preghiera – non può essere soltanto un entrare dentro di sé, una ricerca della pace interiore, e nemmeno un’esperienza psicologica. (…)
La preghiera non è assolutamente possibile, quindi, al di fuori del cristianesimo, proprio perché se Dio non è persona con la quale io entro in rapporto, l’atto che io definisco preghiera è un vuoto ricadere in sé stessi, non è affatto dialogo. Questo vale per l’induismo, per il buddismo, ma anche per l’islamismo: in tutte e tre queste religioni Dio è inaccessibile, nella prima perché è impersonale, nella seconda perché se ne prescinde, nella terza perché è trascendenza infinita. Allora non si può mai dialogare con Lui”.

Fermiamoci qui. Le frasi sopra riportate son così limpide ed eloquenti che non necessitano di commento. Coloro che, non pochi ecclesiastici compresi, smarrita la via dell’unica vera religione, cercano altrove o in un blasfemo sincretismo la pace ed una dimensione spirituale più appagante e, a loro avviso, più vicina all’odierna umanità, son serviti: corrono speditamente verso il nulla, magari ammantato diabolicamente di umanitarismo illuministico, di pacifismo stantio e senza carità da “no-global” ante litteram, da un’erronea o incompleta concezione di tolleranza e rispetto. E da questo nulla saranno inghiottiti inesorabilmente insieme al loro indifferentismo.
Eppure dovrebbero, essi, ben sapere che tutti coloro che hanno il Padre, ma non riconoscono il Figlio, non hanno neppure il Padre, come icasticamente argomenta S. Giovanni nella sua Prima Lettera. Ed al Padre si giunge soltanto attraverso il Figlio. Il rifiuto del Figlio comporta necessariamente il rifiuto del Padre.
Per difender la Fede, la sua Fede Cattolica ricevuta dalla Chiesa sin dal Battesimo, alimentata e confermata da secoli di sana speculazione teologica, che ha saputo rielaborare e rivivere in modo personale ma nella costante ed umile adesione al Magistero, nell’orazione e nello svolgimento della precipua funzione ministeriale, la celebrazione della S. Messa come “alter Christus”, don Divo, il corrispondente degli anche troppo esaltati Von Balthasar e De Lubac, di Merton, l’amico di La Pira e di tanti intellettuali fiorentini, tra cui l’apostata Mario Luzi, non esitava a rimproverare, ed aspramente, chi, tra costoro, gli sembrasse addentrarsi in vicoli ciechi come la sua mente appannata dall’inseguir favole profane: così fece con don Dossetti, il quale lo aveva eletto a suo direttore spirituale e andava discettando in modo estremamente critico, direi da iconoclasta, contro l’ “era costantiniana” della Chiesa, la grande filosofia medievale, nel vano vagheggiamento di un ritorno ai Padri, specie orientali, certo non estranei alla cultura ed al misticismo barsottiano, ma convenientemente assorbiti ed armonizzati nell’ambito della retta dottrina di cui niente mai ed in alcun modo veniva posto in dubbio. Don Divo minacciò di troncare ogni rapporto ove il prete politologo non avesse interrotto la consuetudine con lo storico della Chiesa Giuseppe Alberigo, direttore dell’Istituto per le Scienze religiose di Bologna dallo stesso Dossetti fondato, da Lui ritenuto un pericolo gravissimo per la Fede (cfr. Una Comunità e il suo fondatore, cit. p.106).
La gente che assiepava la SS. Annunziata – i suoi “figli” provenivano da varie regioni d’Italia ed anche dall’estero, persino dallo Sry Lanka – ha seguito tutta la cerimonia del commiato in un clima di composta commozione che si coglieva negli sguardi, negli occhi gonfi, nei volti rigati da qualche lacrima, di compresa partecipazione, di autentica venerazione. Quest’atmosfera ha raggiunto l’apice, in un silenzio quasi sovrumano, quando l’amico padre Serafino Tognetti, il superiore della Comunità, ha dato lettura, con voce ferma pur nell’emozione dell’austero momento, del testamento spirituale del defunto Fondatore, improntato ad ineguagliabile semplicità: in esso v’è il preciso mandato ai Suoi discepoli a proseguire il loro percorso di amore, di servizio e donazione completa al Signore ed ai fratelli, insieme alla promessa d’una pressante intercessione presso il Padre celeste e di una sua ancor più paterna e vigile guida per le vie dell’evangelizzazione-rievangelizzazione e della santificazione del piccolo gregge loro consegnato.
A violare la sacralità della cerimonia, sia pure al suo termine, è intervenuto un applauso inopportuno, per quanto breve e soffocato, al passaggio del feretro nella navata, applauso che don Divo non avrebbe certamente apprezzato: un recente (mal)costume profano che Lui disdegnava.
A padre Serafino Tognetti, ai suoi confratelli, ai seminaristi e a tutti i membri della Comunità rinnoviamo da queste pagine le nostre affettuose condoglianze, con la conferma della nostra preghiera, della nostra vicinanza e con l’incoraggiamento fraterno a procedere secondo le intenzioni del loro “Padre”.
Vogliamo concludere il nostro saluto al Patriarca - nella certezza che se gli uomini, anche i grandi Maestri, passano, la loro testimonianza ed il loro insegnamento restano integri nel tempo, continuano a gettar nella terra il seme buono ed a fruttificare in abbondanza, come il seme del grano che viene interrato perché rifiorisca nella spiga - con alcune Sue indimenticabili parole: “Mi sento, ovunque sono, in esilio, e sento che non raggiungo nessuno se non in Dio. La vera vita è altrove - Altrove “il luogo” dell’incontro. Altrove, eppure è qui – nella Presenza ogni lontananza è distrutta” (Diario 1993).
Il lungo esilio è terminato: Egli è entrato nell’eterna Gerusalemme che non ha mura né porte, purissimo regno di “luce intellettual piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore”. (Paradiso, c. XXX, vv. 39-42).

(da UNA VOCE DICENTES, A. V N. 1 – gennaio-aprile 2006)
 
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Raimundus
view post Posted on 9/6/2006, 23:34     +1   -1




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Raimundus
view post Posted on 28/8/2007, 15:11     +1   -1




Divo Barsotti, un profeta per la Chiesa d'oggi
Anticipò di decenni le linee maestre dell'attuale pontificato. E oggi se ne scopre la grandezza, anche grazie a una mostra a lui dedicata. Visse a Firenze, nel vivo dei contrasti del Concilio e del dopoconcilio. Un commento critico del teologo Paolo Giannoni

di Sandro Magister





ROMA, 28 agosto 2007 – Al Meeting internazionale organizzato come ogni anno a Rimini in agosto, Comunione e Liberazione ha dedicato una mostra a una personalità cristiana immeritatamente poco nota, eppure grandissima: "Divo Barsotti, l'ultimo mistico del '900".

Divo Barsotti – morto a 92 anni d'età il 15 febbraio del 2006 nel suo eremo di San Sergio a Settignano, sopra Firenze – fu sacerdote, teologo, fondatore della Comunità dei Figli di Dio e insigne mistico e maestro spirituale.

Un anno prima di lui era morto a Milano don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione. I due non si incontrarono mai di persona, eppure si stimavano moltissimo.

Il tema che Comunione e Liberazione ha fissato per il Meeting di quest'anno è stato: "La verità è il destino per il quale siamo fatti".

E proprio sul primato della verità don Barsotti fondò tutta la sua vita e il suo insegnamento, in profetica sintonia con le linee maestre dell'attuale pontificato. Un motivo in più per riscoprirne e valorizzarne l'eredità.


* * *

In vita, Divo Barsotti si trovò spesso solo e incompreso. Quand'era giovane sacerdote, isolato nella sua diocesi di San Miniato. Arrivato a Firenze, capito e sostenuto da pochi. Rimasto da solo, per anni, anche nel suo eremo di Settignano, abbandonato dai suoi primi seguaci. E anche dopo, ignorato e sottovalutato fino al termine della vita da gran parte dei media e dell'intelligencija cattolica.

Era un autodidatta, mai laureato nelle scienze teologiche. Ha scritto molto: 160 libri e innumerevoli articoli e pagine sparse, ma nessuna opera sistematica. Eppure la sua produzione scritta e orale testimonia una profondità, una coerenza, una lungimiranza, un acume critico, una libertà di spirito che oggi si rivelano assolutamente fuori dal comune.

Quando in Italia quasi nessuno conosceva la spiritualità russa, egli fu il primo a introdurla, con il primo dei suoi libri, nel 1946, e poi a diffonderla. Al grande santo russo Sergio di Radonez intitolò il suo eremo di Settignano, sulle colline di Firenze.

Ma quando l'orientalismo divenne una moda, più estetizzante che spirituale, egli la bollò con giudizi taglienti: "Noi fiorentini abbiamo il Beato Angelico, il Masaccio, Giotto, Cimabue. Forse non reggono il confronto con le icone russe? Ma sì che lo reggono e lo vincono anche".

Quando in Italia e nelle facoltà teologiche romane, negli anni Quaranta e Cinquanta, stancamente dominava la manualistica, Barsotti non perdeva un libro dei grandi promotori d'oltralpe del "ressourcement", del ritorno alle fonti bibliche, patristiche, liturgiche: Jean Daniélou, Louis Bouyer, Henri De Lubac.

Quando nel 1951 pubblicò quel suo capolavoro intitolato "Il mistero cristiano nell'anno liturgico", egli fu il primo in Italia a sviluppare e approfondìre tesi affini a quelle di Odo Casel – il benedettino tedesco che sosteneva l'oggettiva efficacia della liturgia nel ripresentare l'avvenimento cristiano – prima ancora d'averne lette le opere.

Ma non tacque mai i punti deboli degli autori anche da lui più stimati. A Hans Urs von Balthasar – che prima di morire nel 1988 fu per sei mesi suo direttore spirituale – Barsotti non risparmiò le critiche per le sue tesi dubitative sull'inferno: "Se non ci fosse l'inferno, io non potrei accettare il paradiso".

Non meno critico era con quelli che si affidavano a lui come maestro di spirito. Giuseppe Dossetti fu suo discepolo spirituale dal 1951, da quando cioè abbandonò la politica per farsi monaco e sacerdote e dedicarsi integralmente a rinnovare a suo modo la Chiesa, fino alla morte nel 1996. Ma Barsotti non ne approvò affatto tutte le tesi politiche e teologiche. Un giorno scrisse nel suo diario: "Sembrerebbe meglio per don Giuseppe ritirarsi in qualche isolotto a Hong Kong". Soprattutto, Barsotti non accettava che Dossetti fosse così legato a Giuseppe Alberigo e alla sua interpretazione del Concilio Vaticano II e del dopoconcilio come "nuovo inizio" della storia della Chiesa. Giudicava la frequentazione tra i due un "pericolo". Arrivò a porre a Dossetti l'aut aut: o la rottura con Alberigo o la fine della direzione spirituale.

Lo stesso avvenne con altri eminenti cattolici fiorentini, Giorgio La Pira, Gianpaolo Meucci, Mario Gozzini, quando non ne approvava le posizioni politiche ed ecclesiali.


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Anche ai papi don Barsotti rivolse delle critiche, che per lui erano un atto di giustizia "voluto dal Signore".

Nel 1971 fu chiamato in Vaticano a predicare gli esercizi spirituali d'inizio Quaresima al papa Paolo VI e alla curia romana. Nelle prediche toccò il tema del potere di Pietro e disse – come poi ricordò nei suoi diari – che "la Chiesa ha un potere coercitivo perché Dio glielo ha affidato, e allora deve usarlo. In quegli anni infatti nella Chiesa dilagava l'anarchia e nelle Chiese del Nord Europa ci si faceva beffe del Santo Padre".

Per "potere coercitivo" Barsotti intendeva l'affermazione della verità e la condanna dell'errore, esattamente ciò che il Concilio Vaticano II e gran parte della gerarchia cattolica dopo di esso avevano rinunciato a fare, come egli disse e scrisse più volte: una rinuncia "che praticamente negava l'essenza stessa della Chiesa".

Di Giovanni Paolo II Barsotti era convinto ammiratore, per lo stesso motivo per il quale l'intelligencija cattolica lo svalutava: "Ciò che maggiormente ci ha fatto capire che Cristo è presente in questo papa è l'esercizio di un magistero che, più dell'ultimo Concilio, ha confermato la verità e ha condannato l'errore". Un papa "che ha sempre insegnato l'esclusività della fede cristiana: solo Cristo salva".

Ma anche a papa Wojtyla "colonna della Chiesa" Barsotti non ha taciuto le sue critiche, ad esempio sull'incontro interreligioso di Assisi del 1986. In esso, scrisse, "le intenzioni del papa erano chiarissime". Non però le deduzioni di tanti uomini di Chiesa, i quali "affermano che l'evento di Assisi è il primo passo di un cammino che dovrebbe realizzare l'unità nella pace di ogni fede dogmatica".

In due lettere, Barsotti scrisse a Giovanni Paolo II che il suo magistero di papa era "più importante o almeno altrettanto importante del magistero dell'ultimo Concilio", il quale "aveva messo solo delle virgole al discorso continuo della tradizione", e quindi "non si capisce perché si citi quasi esclusivamente questo Concilio ultimo".

Barsotti godeva di silenzioso rispetto anche tra i cattolici progressisti, ma non perché ne assecondasse le aspettative. Tutt'altro. Nella vicenda della Chiesa italiana e mondiale egli rappresentava la resistenza alla deriva dopoconciliare, in nome dei "fondamentali" della fede cristiana. Tra gli uomini di Chiesa di grado elevato ne vedeva pochi altrettanto decisi a "mettere l'accento sull'essenziale, sulla novità di Cristo, che è la cosa di cui oggi la Chiesa ha più bisogno". Nel 1990 ne indicò due, Joseph Ratzinger e Giacomo Biffi. Che divennero in seguito i suoi due "papabili" preferiti.

E quando il primo dei due divenne papa per davvero, nel 2005, avvenne quasi un passaggio di testimone. Mentre Barsotti, ultranovantenne, infermo, pian piano cessava di scrivere e parlare, nel pontificato di Benedetto XVI venivano affermate "urbi et orbi" – con l'autorità del successore di Pietro – proprio quelle tesi che il prete toscano aveva sostenuto in tutta la sua vita.


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È fortissima la somiglianza tra le diagnosi sul Concilio e il dopoconcilio formulate da Barsotti e da Ratzinger prima e dopo la sua elezione a papa, da ultimo nel colloquio del 24 luglio scorso con i preti del Cadore.

È notevole l'affinità tra i due nel cercare alimento nella grande tradizione della Chiesa e nello spezzare questo pane al gran numero dei semplici cristiani. Basti pensare, per Benedetto XVI, ai suoi due cicli delle catechesi del mercoledì: il primo dedicato alla Chiesa apostolica, con i profili ad uno ad uno degli apostoli e degli altri protagonisti del Nuovo Testamento; il secondo dedicato ai padri greci e latini dei primi secoli della Chiesa, ora arrivato a illustrare i grandi vescovi e teologi della Cappadocia, Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa.

È perfetta la coincidenza tra Barsotti e papa Ratzinger nel leggere le Sacre Scritture e penetrarne il senso profondo: non con i soli strumenti della scienza storica o filologica ma alla luce del loro Autore primo, lo Spirito Santo, riconoscibile nella tradizione della Chiesa.

Anche sulla politica e la storia le visioni dei due sono simili. Entrambi contrarissimi all'idea che nella storia terrena si edifichi progressivamente, quasi per naturale evoluzione, un regno di pace e di giustizia. Entrambi certissimi che l'eschaton, l'atto ultimo e definitivo della salvezza dell'uomo e del mondo, è già presente qui ed ora e non è altri che Gesù crocifisso e risorto.

Il "mistero cristiano" è lui, Gesù crocifisso e risorto, che siede alla destra del Padre ma nello stesso tempo si fa pane per gli uomini nell'eucaristia. Nella messa si attualizzano gli eventi del mistero. Anche qui c'è una straordinaria consonanza tra il Barsotti del "Mistero cristiano nell'anno liturgico" e delle successive riflessioni e le omelie di Benedetto XVI nelle messe pontificali.

Dal libro "Gesù di Nazaret", opera capitale di questo pontificato, alla centralità data all'eucaristia, all'enciclica "Deus caritas est" il magistero di Benedetto XVI appare di una coesione abbagliante. La stessa coesione che è apparsa nella vita e nelle opere di Barsotti. In una nota del suo "Mistero cristiano" del 1951 c'è una riflessione su eros e agape che sbalordisce per come anticipi il cuore dell'enciclica di papa Ratzinger.

In entrambi c'è la consapevolezza che la Chiesa vive sul fondamento della verità e che solo dalla "veritas" sgorghi la "caritas", come lo Spirito procede "ex Patre Filioque": dal Padre e dal Figlio che è il Logos, il Verbo di Dio.

In quello che è forse il suo ultimo scritto pubblico, a commento di un libro uscito nel 2006 sul filosofo cristiano Romano Amerio, Divo Barsottti ha lasciato proprio questa consegna:

"Io vedo il progresso della Chiesa a partire da qui, dal ritorno della santa Verità alla base di ogni atto. La pace promessa da Cristo, la libertà, l’amore sono per ogni uomo il fine da raggiungere, ma bisogna giungervi solo dopo avere costruito il fondamento della verità e le colonne della fede".

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E il suo discepolo Paolo Giannoni riapre la disputa "Firenze contro Roma"


La riscoperta di don Divo Barsotti – con il non lontano avvio della sua causa di beatificazione – rimette al centro dell'attenzione anche il caso della Chiesa di Firenze alla quale egli apparteneva, un caso analizzato da un servizio di www.chiesa del 25 giugno 2007:

> Firenze contro Roma: un cattolicesimo in stato di disagio

All'analisi proposta in quel servizio – da parte soprattutto del professor Pietro De Marco, anche lui di Firenze – ha ora replicato un altro esponente di rilievo del cattolicesimo fiorentino: don Paolo Giannoni, 72 anni, per quasi mezzo secolo docente alla Facoltà Teologica di Firenze e dell'Italia Centrale, oggi monaco benedettino camaldolese ed eremita presso la chiesa di Sant'Andrea a Mosciano.

La replica di don Giannoni – molto ampia e approfondita, con acute critiche al "ricentraggio" dottrinale e al risveglio d'identità cristiana promossi dagli ultimi due papi – è riportata integralmente in quest'altra pagina di www.chiesa:

> Identità cristiana o progetto di potere? Una riflessione sulla Chiesa di Wojtyla e Ratzinger

Nelle tredici cartelle del suo scritto Giannoni cita due volte Barsotti.

Una prima volta ricorda che anche Barsotti, come altri esponenti della Chiesa fiorentina, in alcuni momenti fu mal compreso e osteggiato dalle gerarchie ecclesiastiche:

"La attuale 'canonizzazione' di don Barsotti non può far dimenticare la sofferenza da lui patita per la opposizione contro i suoi libri degli anni '50, mentre viveva e portava una ricchezza particolare all’interno della vita teologica e spirituale europea del tempo".

In effetti, nel 1960, la congregazione vaticana del Sant'Uffizio censurò il suo libro "Commento all'Esodo", pubblicato in Francia con l'imprimatur ma proibito in Italia. Barsotti fu convocato a Roma e gli venne imposta la ritrattazione. Il libro ebbe il via libera dopo il Concilio Vaticano II ed è giunto oggi in Italia alla sua sesta edizione, col titolo "Meditazioni sull'Esodo".

La seconda volta in cui cita Barsotti, Giannoni scrive:

"Problematica ma preziosa era la voce di don Barsotti, anche se ormai viveva una polemica dura nei confronti della cultura contemporanea. Purtroppo si determinò una sua autarchia, certo sempre feconda, ma chiusa e amara in un animo che peraltro aveva dolcezze mitissime; e si dice questo con l’amore riconoscente verso un padre nello Spirito".

In questa frase ci sono sia critica che ammirazione. Don Giannoni, che pure è ascrivibile al cattolicesimo progressista colto, riconosce d'essere stato anche lui figlio spirituale di Barsotti.

E in effetti, l'edizione attualmente in commercio in Italia del capolavoro di Barsotti, "Il mistero cristiano nell'anno liturgico", si apre con la prefazione proprio di don Giannoni, dal suo eremo di Mosciano.
 
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3 replies since 15/5/2006, 20:48   848 views
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