| LA S. MESSA E' VERO SACRIFICIO
Poiché Totus Tuus ha sopra richiamato il numero A. III. N.1 (gennaio-giugno 2004) del mio bollettino UNA VOCE DICENTES, organo della sezione fiorentina di UNA VOCE, reputo opportuno pubblicare i due interventi sull'argomento cui allude: un breve ma denso ed esauriente saggio che mons. Gherardini ebbe la carità di scrivermi, ed un mio articolo.
L’illuminante parere di un grande teologo
LA S. MESSA E’ VERO SACRIFICIO
di mons. BRUNERO GHERARDINI
Nell’ultimo numero di questo bollettino ho commentato il rifiuto opposto dal Vescovo di Pistoia, mons. Simone Scatizzi, alla celebrazione della S. Messa secondo il Messale di S. Pio V e ne ho contestato, oltre alle deboli argomentazioni (secondo le quali i fedeli legati all’antico rito chiederebbero l’applicazione dell’indulto per meri motivi di cultura e compiacenza letteraria) la seguente affermazione, priva di seria motivazione e giustificazione nella sua schematicità: “Vede, per me, la Messa è un sacrificio unico e irripetibile”, perché irripetibile (nel significato di non replicabile) è soltanto il Sacrificio cruento di Cristo sulla Croce, il Sacrificio “storico”, insomma. In questo civile dibattito si è inserito un sacerdote non privo di fama, il quale, a sostegno delle posizioni di mons. Scatizzi, mi ha scritto una lettera “personale” che, se in qualche parte è inopportunamente pretenziosa quanto generica (fra l’altro mi accusa di ricorrere a sofismi), altrove appare interessante per la conferma che offre alla mia convinzione più volte espressa che, nel dopo-concilio, regna una grande confusione persino sull’essenza della S. Messa. Non credo di violare nessun codice di onore né la privacy del corrispondente se qui riporto una sua tesi assai ambigua al limite dell’eresia e, successivamente, rendo pubblica la mia risposta più articolata. Non è ammissibile che un sacerdote non abbia il coraggio di esprimere apertis verbis e sottoscrivere con nome e cognome ciò che egli ritiene essere “verità”: in fondo, è inderogabile dovere della sua missione parlare, correggere, istruire. Comunque, alla mia lettera, con la quale lo informavo che intendevo utilizzare le sue critiche osservazioni al fine di approfondire la discussione sull’argomento, con accorgimenti tali, tuttavia, da garantirgli l’anonimato e l’impossibilità di risalire alla sua persona, non è pervenuto, a distanza di cinque mesi, alcun riscontro negativo. Silenzio – assenso. Ecco, dunque, il concetto controverso esposto dall’interlocutore: “Il sacrificio di Cristo è unico e irripetibile; la S. Messa non lo ripete, lo attualizza. Si ripete il rito non la realtà sacramentale che sta nel rito, che è appunto l’unico sacrificio di Cristo”. Per elevare il tono del dibattito mi sono rivolto ad un’autorità di indiscusso valore, il mio vecchio Assistente FUCI, mons. Brunero Gherardini, già professore preso la Pontificia Università Lateranense, direttore della prestigiosa rivista “Divinitas”, postulatore per la causa di canonizzazione del beato Pio IX, autore di molte opere che ne hanno fatto, a detta di esperti non certo “compiacenti” e superficiali, quali il defunto esegeta mons. Francesco Spadafora, il massimo teologo italiano vivente, apprezzatissimo, oltre che ben noto, ecclesiologo e tra i più eccelsi cultori di Luterologia. A lui ho posto la seguente domanda: “Il Sacrificio di Cristo è unico e irripetibile? La Santa Messa ripete solo il rito di questo sacrificio, o il Sacrificio stesso? ”. Trascrivo alla lettera la risposta del caro amico, venerato maestro ed illustre teologo.
Dante Pastorelli
La domanda ha una doppia articolazione che soltanto un intero trattato potrebbe prendere esaurientemente in esame. Dovrò invece procedere schematicamente per sommi capi. 1 – Sì, il Sacrificio di Cristo è unico. Fu offerto una volta per sempre in modo cruento sulla Croce (Ebr 9,11-22). In modo sacramentale, cioè “per re-praesentationem non cruentam in ritu et per ritum” venne anticipato il Giovedì Santo dallo stesso Signore e, da allora, viene offerto in ogni singola Messa (Trident., Sess. XXII DS 1738-42). 2 – E’ irripetibile? Sì, quanto alla sua forma cruenta; no, quanto alla sua forma sacramentale. Occorre peraltro notare che l’aggettivo irripetibile, nell’uso oggi frequente dal quale dipende certamente la domanda, è linguisticamente un neologismo e dogmaticamente un errore gravissimo: a) In origine l’aggettivo non ha il senso di unico e quindi non duplicabile né rinnovabile; questo senso è una forzatura indotta dal significato corrente di ripetere, ossia fare o dire di nuovo. L’etimo latino nega la legittimità di tale forzatura. In latino repeto ha un unico significato: chiedo indietro, esigo (un diritto, la restituzione, un pagamento). Irripetibile, perciò, nega la possibilità stessa di repeto e significa: che non può esser richiesto, né rivendicato, che non può esser restituito, di cui non deve chiedersi il pagamento. b) Dogmaticamente, arieggia l’eresia luterana, contro la quale il Tridentino fu chiaro e perentorio: “…quo cruentum illud semel in cruce peragendum repraesentaretur eiusque memoria in finem usque saeculi permaneret” (Sessio XXII, DS 1740). Son parole, queste, che hanno un loro valore sullo sfondo di quelle usate da Lutero per sostenere il contrario. 3 – La questione del rito, così com’è posta, parrebbe ignorare il valore liturgico-sacramentale del rito stesso. Non si dà un sacramento separato dal rito; il rito stesso, se debitamente posto, è l’ “opus operatum” del sacramento. Si deve dedurne che una separazione della Messa dal rito è un non senso. Se poi a tale separazione si desse la funzione di separare il Sacrificio di Cristo dalla Santa Messa, non solo ne riemergerebbe l’eco dell’eresia luterana, ma tale eco sarebbe nuovamente azzerata e condannata dal Tridentino: “Si quis dixerit Missae sacrificium tantum esse…nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti…anathema sit”. (Trident., Sess. XXII DS 1753). 4 – E’ mia impressione che tutto dipenda da una mal intesa re-praesentatio. Il senso medievale dell’espressione è ben lungi dal presunto superamento di essa mediante l’inflazionata attualizzazione; è infatti dimostrato che proprio questo, non su base puramente linguistica, ma in connessione con la teologia del sacramento, è il senso di re-praesentatio. E questo fu anche il merito della scuola di Maria Laach, con particolare riferimento a Odo Casel, che pure non fu privo d’esagerazioni quando parlava del ripresentarsi hic et nunc (nel fatto sacramentale) del passato evento o mistero in tutte le sue proprietà e circostanze di tempo e di luogo. Se spogliata di siffatte esagerazioni, la sua Vergegenwartigung (“denuo sistere in praesens”, portare il passato nel presente) e collocata all’interno dell’efficacia sacramentale, costituisce un notevole contributo all’illustrazione e comprensione della re-praesentatio medievale. Il collegamento con la realtà sacramentale è il presupposto di questa considerazione. Prescindendone, si rimane al puro ambito naturale: l’acqua rimane acqua, che significa e produce pulizia, ma non va oltre; però, se adibita per il rito sacramentale, in forza di esso (“accedit verbum”, direbbe sant’Agostino) il suo significato e la sua efficacia trascendono l’ambito della natura e producono la grazia. 5 – Oggi, senza il retroterra culturale che faceva del Casel un vero scienziato, se ne adotta il linguaggio acriticamente, con il risultato di far confusione là dove si pensa o si pretende di far chiarezza: per es., nell’opporre attualizzare a rappresentare e rinnovare. Forse senza sapere neanche di che cosa si tratti, sì fa dell’attualizzazione un nuovo zikaron (da zekar, ricordare). Lo zikaron veterotestamentario era infatti il ricordo, la memoria dell’evento passato: lo esprimeva nel rito, lo rendeva presente nel ricordo dei buoni israeliti, ma non lo rinnovava, non lo ripeteva, non lo coinvolgeva oggettivamente nella loro esperienza. Tutto il contrario avviene nel sacramento, che proprio per questo non è uno zikaron: nella realtà misterica del presente, ossia per l’efficacia di cui Cristo ha caricato il sacramento, il passato si attualizza e si ripropone, si ripete, si rinnova. Non nella sua oggettività d’evento determinato nel tempo e nello spazio (sarebbe un assurdo), bensì nella rassomiglianza (Rm 6,5; 8,3; Fil 2,7; Ebr 4,15) del fatto sacramentale. 6 – La Santa Messa è sacrificio non perché ed in quanto è zikaron (memoria) del Sacrificio di Cristo, ma perché è memoria sacramentale di esso, sua riproposta nella realtà misterica del rito. In altre parole, è il rito che ripete e rinnova il Sacrificio di Cristo. 7 – Ho preferito queste mie brevissime ed insufficienti indicazioni alla frase generica (e poco rispettosa di chi pone una domanda) con cui talvolta ci si lavano le mani: confronta qualche Autore sicuro e dogmaticamente accreditato (confer probatos Auctores); mi rendo ben conto, però, che soltanto lo studio di qualcuno di essi può toglier dei dubbi e raddrizzare le idee. Ecco allora qualche nominativo: Bellarmino, Lessio, Vasquez, Lugo, Gonet, Billuart, Franzelin, Billot; fra i più recenti, UMBERG J.B., Mysterium - Frommigkeit, in “Zeitschr. f. Aszese und Mystik” del 1926, 351-366; COPPENS J., Le mystère eucharistique, Lovanio 1929 ; SOEHNGEN G., Symbol und Wirklichkeit im Kultmysterium, Bonn 1937; SCHNACKENBURG R., Das Heilsgeschehen, Monaco 1950; FILOGRASSI G., De SS.ma Eucharistia, Roma 19576; JOURNET C., La Messe, Parigi 1957; ID., Le mystère de l’Eucharistie, Parigi 1981; DE BACIOCCHI J., L’Eucaristia, Roma-Tournai 1968; PIOLANTI A., Il mistero eucaristico, Roma-Vaticano 19833, sp. pp. 376-556. 8 – Un’ultima annotazione. Si parla spesso di “Mistero”, ma senza il dovuto atteggiamento di silente adorazione dinanzi ad esso. Troppa sicumera riempie la bocca di chi ne parla a propria ed altrui confusione. La vera teologia è prima preghiera che esposizione e quando si fa tale non si sovrappone al “Mistero”, ma l’accoglie. Non mi pare che si trovi in questa linea chi pretende di forzare le parole per banalizzare il “Mistero”.
Risposta al cauto avvocato difensore di mons. Scatizzi
LA S. MESSA: SACRIFICIO CHE SI RINNOVA O NUDA COMMEMORAZIONE?
di DANTE PASTORELLI
Prima di ricevere le pagine, fortemente sentite ed illuminanti, di mons. Brunero Gherardini che tanta benevolenza, a distanza di quarantacinque anni, ancora mi dimostra – del che lo ringrazio di cuore, come tutti i figli della Chiesa dovrebbero ringraziarlo non solo per l’opera di un’intera vita spesa a difendere e a diffondere l’ortodossia cattolica con l’insegnamento e gli studi teologici, ma anche e soprattutto per essere stato ed essere sempre un sacerdote innamorato di Cristo e Maria, alla quale ha dedicato saggi importanti, che ha alimentato le sue ricerche con l’ausilio imprescindibile dell’Eucaristia e della preghiera – avevo risposto al sacerdote dalle cui affermazioni ha preso le mosse questo bollettino. Non riporto qui la sua lettera giacché non intendo che si possa, attraverso lo stile, riconoscerne la provenienza, essendomi in tal senso impegnato nella parte finale del mio scritto: per questo motivo anche la mia risposta è stata lievemente modificata ed in qualche punto ampliata, mentre non sono state eliminate quelle considerazioni che, dopo l’intervento di mons. Gherardini, possono apparire (e sono) inutili perché ripetitive. I concetti che il contraddittore esprime inserendosi - benvenuto - nel civile dibattito apertosi con S. Ecc. za mons. Scatizzi, sono, tuttavia, facilmente deducibili dalle mie parole. d.p.
Firenze, 16. 01.04
Reverendo,
La ringrazio vivamente per la Sua lettera che ho letto e riletto molto attentamente, e soprattutto per la Sua paterna benedizione. Le assicuro che, come i miei amici, anch’io prego sempre per il Papa e per i Vescovi, anche per quelli che non accettano l’invito del Pontefice ad applicare “generosamente” l’indulto e ad avere il massimo rispetto per coloro che si sentono legati a forme della liturgia antica. Anzi, per questi ultimi le preghiere raddoppiano, perché desideriamo che, con l’aiuto divino, essi diventino i Pastori dell’intero gregge, sì che il loro amore si riversi in egual misura e senza distinzione su tutte le pecore loro affidate. Mi scuso, inoltre, per il ritardo della mia risposta, dovuto a vari motivi, non ultimo una motivata perplessità sull’opportunità di procedere ad una corrispondenza sul tema Messa-Sacrificio con un sacerdote che mi dicono buono e acculturato: perplessità superata dopo intensa riflessione ai piedi dell’altare, dinnanzi al Tabernacolo, nella certezza che dal confronto possa scaturire del bene per noi due e per i lettori. Eccomi, dunque, a scriverLe con aperto animo filiale. Lei può benissimo darmi lezioni, non me ne dorrei affatto ove lo facesse: come ministro di Dio Lei è Maestro ed ha il dovere di insegnare, guidare, rafforzare nella fede anche con giustificati richiami ed ammonimenti coloro che incontra sulla sua strada. Anch’io ho insegnato ed ho imparato, nel corso degli anni, che le lezioni non devono essere “belle” ma “buone”: quelle belle soddisfano l’insegnante, le buone sono utili agli alunni. E per essere buone le lezioni devono esser chiare, precise, esposte in linguaggio piano, accessibile e senza ombra di ambiguità. A questi requisiti, a maggior ragione, devono rispondere le lezioni ed i chiarimenti in materia di fede: in caso contrario c’è da rimanerne sconvolti e travolti. Ebbene, in tutta sincerità, e con la massima umiltà, perfettamente consapevole di non essere teologicamente così attrezzato da competere con Lei, devo confessarLe che le Sue argomentazioni a sostegno ed esplicitazione della scatizziana “irripetibilità della Messa” (Sacrificio unico e irripetibile), da me commentata nel numero di giugno-dicembre di “Una Voce dicentes”, a questi requisiti non mi sembrano rispondere granché, per cui, invece di chiarirmi le idee, Lei me le ha confuse, certo, ripeto, per mia carenza di preparazione. Che in italiano ripetere non significhi attualizzare, almeno nel linguaggio corrente, lo capisco senza necessità di ricorrere, come da Lei suggerito, al dizionario del Devoto, il quale fu tra i miei professori: avendo studiato Lettere classiche a Firenze (110 e lode) in tempi non sospetti di lassismo (1958-62), e benché io ormai mi senta e sia, sotto parecchi aspetti, un nonno analfabeta di ritorno, a tanto ancora ci arrivo. Anzi dirò, senza bisogno di ricorso ad un qualsiasi dizionario latino (anche a questo, tra le altre poche cose, ancora ci arrivo: le lezioni dei proff. A. Ronconi, G. Pascucci, soci di “Una Voce – Firenze”, Rosa La Macchia, anch’essa cattolica di ferro, qualcosa han pure inculcato nella mia giovanissima mente) che il verbo repeto nell’espressione “Il Sacrificio della Croce è irripetibile”, dovrebbe avere il significato di “non pretendere ricompensa”, d’essere, cioè, gratuito, di “non chiedere che venga restituito”, perché la Nuova Alleanza suggellata da quel Sacrificio è irreversibile: ed in questo non mi aiuta soltanto quel po’ di latino che ricordo, ma pure l’insegnamento di vescovi e sacerdoti che ho frequentato prima nella mia fanciullezza (a 13 anni fui vincitore di un premio “Veritas”, grazie al quale potei recarmi a Roma, esser ricevuto dal grande Pio XII e riceverne una carezza che non ho mai dimenticato) e nella mia adolescenza nella natìa Puglia – C. Ursi, vescovo di Nardò e poi cardinale di Napoli, A. Semeraro, vescovo di Oria, mons. L. Neglia, pietra miliare nella storia religiosa di Manduria – e poi, nella mia giovinezza, a Prato, Pistoia e Firenze – mons. Fiordelli, diversi assistenti FUCI, e sacerdoti quali M. Bonacchi, M. Leporatti, L. Stefani, R. Bresci, G. Setti ecc -. Pertanto oserei manifestare l’impressione che Lei usi l’aggettivo derivato (irripetibile) piuttosto impropriamente nel contesto della Sua spiegazione. Comunque è verità di fede che il Sacrificio cruento di Cristo è irripetibile nel senso di non reiterabile e non sto a spiegarne le ragioni che credo siano evidenti anche ad un musulmano: era questo che Lei voleva farmi capire? Se così fosse, bah!, la forma avrebbe tradito completamente il contenuto. Ma procediamo con ordine. Lei usa il verbo attualizzare (la Messa attualizza il Sacrificio di Cristo): l’ha usato anche l’amico prof. Andrea Conti nell’ultimo numero del mio bollettino, così come io ho usato il verbo ri-presentare (rendere presente). Niente da eccepire, purché non lo si voglia assolutizzare ed esclusivizzare, presentandolo, cioè, come il verbo che meglio d’ogni altro possa significare il valore della Messa. Mai ho sostenuto che la Messa “ripete” sic et simpliciter, il sacrificio fisico, storico di Gesù: non ho neppure utilizzato tale verbo, ma avrei potuto farlo senza tema, avendolo utilizzato pontefici quali Pio XII, per cui sarebbe stato opportuno non attribuirmi espressioni ed intenzioni che non mi appartengono. Essa, ho sempre pensato e scritto, è il Sacrificio della Croce che si rinnova perpetuamente in modo incruento per mezzo del sacerdote alter Christus; mistica e sacramentale immolazione che si compie quotidianamente e sotto tutti i cieli; sacrificio di lode, espiazione, propiziazione, impetrazione; vero sacrificio il quale applica i frutti che il Sacrificio del Calvario ha prodotto e da quello è distinto anche numericamente. (Cfr. P. Parente, Teologia del Sacerdozio di G. Cristo, in Enciclopedia del Sacerdozio, Firenze, LEF 1953; A. Piolanti, L’Eucarestia, Roma, ed. Studium 1952). In questa sua essenza la Messa è ripetibile-replicabile Alla luce di quanto sopra esposto – che non è farina del mio sacco ma che ho fatto mia – non reputo irriverente rimarcare come la Sua affermazione “si ripete il rito e non la realtà sacramentale che sta nel rito, che è appunto l’unico sacrificio della croce” possa apparire una tesi teologicamente azzardata e logicamente incongruente, sempre che le parole (ed anche la sintassi) abbiano un senso, per quanto del tutto inappropriate al concetto che volevano esplicitare e che mi suonano suscettibili, nella loro ambiguità, di diversa interpretazione. Vediamo un po’. Se nel rito della S. Messa c’è (o non c’è?), una realtà sacramentale, come è possibile una ripetizione del rito nella sua interezza ed in tutto il suo valore senza la contemporanea ripetizione di questa realtà? Scindendo rito e realtà sacramentale (nella quale Lei sembra identificare l’unico Sacrificio di Cristo sulla Croce: ma su questa espressione teologicamente inesatta e contorta presto si ritornerà) si approda alla cena nuda e cruda. Son convinto che Lei non volesse sostenere questo, che equivarrebbe al rinnegamento d’un dogma centrale della nostra religione, in cui convergono tutti gli altri, ma l’imprecisione, l’inadeguatezza, la frettolosità, forse, del Suo discorso (comprensibili e compatibili in un semplice fedele come me) con conseguente ambiguità concettuale, questo possono indurre a credere. Ben diversa avrebbe dovuto essere, per terminologia e argomentazione, la sua “contestazione” al mio articolo, benché niente di contestabile altri vi abbia rilevato, alla quale avrebbe corrisposto, ora, un mio ben diverso giudizio. Trascrivo qui, per il loro esemplare nitore lessicale-concettuale, poche righe di mons. Antonio Piolanti, esimio teologo, Rettore della Pontificia Università Lateranense, recentemente scomparso: “Per l’intima solidarietà che vige tra il Capo e le Membra del Corpo Mistico, era necessario che il Sacrificio della Croce, rimanendo uno e assoluto, passasse nella trama quotidiana della vita della Chiesa, si rendesse coestensivo a tutti i tempi e a tutti i luoghi senza moltiplicarsi. Moltiplicando i segni non si moltiplica la realtà significata: sull’altare si moltiplicano le immolazioni mistiche, ma poiché queste hanno un carattere essenzialmente rappresentativo dell’immolazione del Calvario, non moltiplicano la realtà cui si riferiscono. Così nella Messa si hanno le identiche realtà del Calvario; vi è contenuta la stessa vittima e lo stesso sacerdote del Calvario; vi circola l’offerta che è una e immutabile, come la continuazione cristallizzata del Calvario; nella sfera esterna e rinnovata, in signo, in sacramento, ma non moltiplicata, la stessa morte della Croce” (A. Piolanti, Il Mistero Eucaristico, Firenze 1956). Non è da meno padre Enrico Zoffoli, anch’egli professore alla Lateranense e autore di molte opere di teologia e filosofia, nel suo catechistico La Messa è tutto, Udine 1993: “Il rito eucaristico è un <<segno>> assolutamente diverso da tutti gli altri usati nella vita umana, i quali sono sempre altra cosa da quanto significano: la bandiera non è la nazione; la tela di Raffaello che ritrae Giulio II non è Giulio II; un film storico non è la vicenda rievocata. In questi e in tutti gli altri casi il <<segno>> è vuoto, il <<simbolo>> è privo di un contenuto, l’immagine non è la realtà riprodotta; e, trattandosi di un evento passato, il <<segno>> può farlo soltanto ricordare (…) sull’altare, invece, nel pane e nel vino – in virtù della consacrazione che transustanzia l’uno e l’altro nel corpo e nel sangue di Cristo – non abbiamo soltanto dei <<segni>>, ma anche la Realtà significata nella Persona di Cristo, Verbo incarnato, presente sotto le specie eucaristiche; con tutta la sua umanità e divinità. Si tratta, perciò, di una <<presenza sacramentale>>, perché rivelata (e creduta) da un <<sacramento>> (= signum) ricco del <<contenuto-Mistero>> costituito da Cristo, Sacerdote e Vittima nell’Atto unico e indivisibile dell’Offerta cruenta di Sé al Padre, riprodotta simbolicamente dalle specie eucaristiche; le quali appunto perché consacrate distintamente, evidenziano l’uccisione della Vittima della Croce, irrepetibile in se stessa, ma sempre ripresentabile attraverso la concreta eloquenza del <<segno>> indefinitivamente rinnovato. (…) Ad un solo <<sacrificio>> rispondono le <<molte messe>> secondo la moltiplicazione numerica del rito eucaristico”. In tali ineccepibili esposizioni è proposto con icastica lucidità il valore liturgico-sacramentale-sacrificale della Messa che in forma solenne e vincolante ritroviamo confermato nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo II, il quale ammonisce: “L’Eucaristia è un dono troppo grande per sopportare ambiguità e diminuzioni”. (E. d. E., Introduzione § 10). S’io fossi un teologo autentico, di quelli fini, per evidenziare i grossi limiti delle sue asserzioni, Le osserverei che Piolanti e Zoffoli, in un dettato rigoroso, parlano a ragion veduta di “realtà significata” (res significata), realtà che, senza alterazione né moltiplicazione di sé, permanendo una ed unica, trova nel “signum” o “sacramentum tantum” una sua ri-proposta nell’ “hic et nunc” del rito sacramentale, una sua ri-presentazione. O, con C. Journet (La Messa, Milano 1958), che, parlando del Sacrificio della Croce, sulla traccia di S. Tommaso, del Caietano, del Bossuet ecc, preferisce “perseverare” a “rinnovare”, il cui uso pure, per traslato, approva, direi che la Messa reitera e rinnova le “presenze” del sacrificio cruento. Fossi quel dotto, equivoca e poco intellegibile, come già accennato, definerei quella Sua “realtà sacramentale che sta nel rito e che è appunto l’unico sacrificio della Croce” e Le obietterei: se Lei dice “realtà sacramentale”, dice la realtà del “segno” (il sacramentum tantum e il rito che lo effettua) e non può dire, perciò, “la realtà sacramentale che sta nel rito” e tanto meno “che è l’unico Sacrificio di Cristo”. L’unico Sacrificio di Cristo è la Sua passione e morte di Croce. Tale Sacrificio è la “realtà significata” dal sacramento e dal medesimo ri-presentata (res significata et repraesentata). Il sacramento, infatti, spiegherei, proprio per l’efficacia del rito (“opus operatum”) è “signum et instrumentum”: ha, cioè, una funzione allusiva (indica, significa) ed una causalità efficiente-strumentale (produce ciò che significa; è il caso della “res simul et sacramentum”). Ne consegue che : a) nel rito c’è la realtà originaria in quanto significata e ripetuta, o ri-presentata; b) non c’è la realtà sacramentale essendo tale esso stesso. E’ duro, in un bollettino d’impronta familiare, colloquiale, privo di ambizioni o velleità scientifiche, ricorrere ad una terminologia tanto specialistica, frutto di sapienza così profonda e assodata che, in tutta sincerità, fatico molto, non essendo sufficientemente attrezzato in materia, ad accedervi, oltre che a metterla per iscritto. Ma mi rendo ben conto che una terminologia come quella di cui Lei, attrezzatissimo, si serve, più o meno impropria, palesemente plurivalente se non proprio erronea, e comunque infelice, deve essere arginata, perché in campo teologico può provocar terremoti. Pensi, Reverendo, come anche l’errore di un infinitesimale “zero virgola” nei calcoli di un ingegnere basti e avanzi per far crollare ponti, dighe e grattacieli. Purtroppo, assai numerose sono oggi le ambiguità fuorvianti frutto della nuova teologia, e del relativo nuovo linguaggio, che talvolta riprende la speculazione di ottimi teologi piegandola, coscientemente o meno non so, alle personalissime vedute dei suoi corifei, per cui io preferisco restare ancorato nel porto sicuro delle Verità che ho appreso nelle stagioni in cui nei seminari, nelle facoltà pontificie, nelle associazioni cattoliche e dai pulpiti si insegnava la retta dottrina. “L’augusto Sacrificio dell’altare… rinnovato ogni giorno… Dio vuole la continuazione di questo Sacrificio”, leggo nella Mediator Dei del Servo di Dio Pio XII, enciclica munita nelle sue parti dogmatiche della nota dell’infallibilità, che si ricollega alla teologia della S. Messa solennemente definita dal Concilio Tridentino, Sessione XXII, e a tutta la Sacra Tradizione, la quale, come si diceva un tempo, è canale della Rivelazione (Cito dagli originali vaticani riprodotti dalla Società “Vita e Pensiero” nel 1956). L’immolazione sacramentale, incruenta, si ripete-replica-reitera ogni giorno attraverso la S. Messa. Oggi si disdegna alquanto, perché ritenuto antiquato, se non addirittura errato, il verbo “rinnovare” per il più à la page “attualizzare” che pure, se non ben inteso, qualche confusione potrebbe ingenerare, ove si consideri che il Sacrificio del Calvario è sempre attuale nel suo valore metastorico. Ma col cambiar linguaggio, come col mutuare espressioni dalla cultura contemporanea, non sempre ben digerita, si rischia di andare e far andar fuori strada, di cadere, come si è caduti, in proposizioni non cattoliche, nella trasfinalizzazione o nella transignificazione ad es., che dovrebbero sostituire la “tradizionale” transustanziazione, condannate da Paolo VI. Ed allora io mi attengo, anche linguisticamente, agli autori “probati” alla mia modesta portata, che sono una “summa” del Magistero della Chiesa in materia (Tanquerey, Piolanti, Parente, Bartmann, Premm, Lagrange, Grimal, Palazzini ecc.) e ad opere come l’ Enciclopedia cattolica, per non parlare della Mysterium Fidei e del Credo di Paolo VI e della recente Ecclesia de Eucharistia, oltre alla citata Mediator Dei. La Sua lettera è “personale” e, come tale, resterà riservata. Alcuni concetti e definizioni ormai patrimonio diffuso, però, (il Sacrificio che si attualizza, la repetibilità del Sacrificio di Cristo e quello, che non è Sua invenzione, perché anche da altre parti si propone, di rito che si ripete mentre non si ripete la realtà sacramentale che vi sta dentro), senza ovviamente alludere minimamente alla Sua persona, e con accorgimenti tali da impedire che alla Sua persona essi possano ricondursi, (per quanto, a mio modesto avviso un sacerdote non dovrebbe aver timore di far conoscere urbi et orbi le sue posizioni dottrinali che ritiene pienamente ortodosse), li ho sottoposti al vaglio di un antico amico, teologo assai stimato, affinché sciolga i dubbi miei e quelli dei lettori del mio bollettino. Se lo riterrò opportuno darò notizia delle altre Sue considerazioni critiche, in modo sempre assolutamente impersonale, onde salvaguardare la Sua identità, e stia tranquillo che, quando mi sarà pervenuto l’alto parere, non avrò remore ad ammettere i miei errori pubblicamente, come impone la morale cattolica. Come vede, con le persone corrette non amo polemizzare, ma discuto serenamente, accetto lezioni, replico in purezza d’intenti, mi espongo a critiche e non indietreggio davanti ad eventuali ritrattazioni. Però, suvvia, Reverendo, questo lo riconosca: la veneranda S. Messa di S. Pio V non si può in alcun modo considerare rito per esteti e per lo scelbiano “culturame”. Non si possono buttar nella spazzatura, o almeno considerare obsoleti, 2000 anni di Sacrificio, di Fede, di Magistero, di santità che in quel rito sono sintetizzati. Su questo non potrò mai seguire né Lei né alcun altro, vescovi e papi compresi, il cui insegnamento non può per nessun motivo, per quanto onesto possa essere, prescindere da quello dei predecessori. L’attuale Pontefice, come l’ex-novatore Ratzinger, che nel Concilio era più o meno sulle stesse posizioni dei nefasti Rahner, Chenu, Schillebeex, Congar, Kung ecc. a supporto teologico degli altrettanto nefasti cardinali Suenens, Lienart, Alfrink ed altri ecclesiastici olandesi, belgi, tedeschi, francesi eretici quanto i loro catechismi, oggi amaramente pentito come il Paolo VI del fumo di Satana, l’hanno capito, tardi ahimé, e stanno, finalmente, operando proficuamente nella giusta direzione, tentando di riparare, con quali esiti si vedrà, le troppe falle aperte proditoriamente nella barca di Pietro che, per tornare sicura al largo, ha bisogno di timonieri e marinai accorti e vigili. Che Dio li ricompensi come meritano, in questa e nell’altra vita. Dev.mo in Xto et Maria Dante Pastorelli o, accessibile e senza ombra di ambiguità. A questi requisiti, a maggior ragione, devono rispondere le lezioni ed i chiarimenti in materia di fede: in caso contrario c’è da rimanerne sconvolti e travolti. Ebbene, in tutta sincerità, e con la massima umiltà, perfettamente consapevole di non essere teologicamente così attrezzato da competere con Lei, devo confessarLe che le Sue argomentazioni a sostegno ed esplicitazione della scatizziana “irripetibilità della Messa” (Sacrificio unico e irripetibile), da me commentata nel numero di giugno-dicembre di “Una Voce dicentes”, a questi requisiti non mi sembrano rispondere granché, per cui, invece di chiarirmi le idee, Lei me le ha confuse, certo, ripeto, per mia carenza di preparazione. Che in italiano ripetere non significhi attualizzare, almeno nel linguaggio corrente, lo capisco senza necessità di ricorrere, come da Lei suggerito, al dizionario del Devoto, il quale fu tra i miei professori: avendo studiato Lettere classiche a Firenze (110 e lode) in tempi non sospetti di lassismo (1958-62), e benché io ormai mi senta e sia, sotto parecchi aspetti, un nonno analfabeta di ritorno, a tanto ancora ci arrivo. Anzi dirò, senza bisogno di ricorso ad un qualsiasi dizionario latino (anche a questo, tra le altre poche cose, ancora ci arrivo: le lezioni dei proff. A. Ronconi, G. Pascucci, soci di “Una Voce – Firenze”, Rosa La Macchia, anch’essa cattolica di ferro, qualcosa han pure inculcato nella mia giovanissima mente) che il verbo repeto nell’espressione “Il Sacrificio della Croce è irripetibile”, dovrebbe avere il significato di “non pretendere ricompensa”, d’essere, cioè, gratuito, di “non chiedere che venga restituito”, perché la Nuova Alleanza suggellata da quel Sacrificio è irreversibile: ed in questo non mi aiuta soltanto quel po’ di latino che ricordo, ma pure l’insegnamento di vescovi e sacerdoti che ho frequentato prima nella mia fanciullezza (a 13 anni fui vincitore di un premio “Veritas”, grazie al quale potei recarmi a Roma, esser ricevuto dal grande Pio XII e riceverne una carezza che non ho mai dimenticato) e nella mia adolescenza nella natìa Puglia – C. Ursi, vescovo di Nardò e poi cardinale di Napoli, A. Semeraro, vescovo di Oria, mons. L. Neglia, pietra miliare nella storia religiosa di Manduria – e poi, nella mia giovinezza, a Prato, Pistoia e Firenze – mons. Fiordelli, diversi assistenti FUCI, e sacerdoti quali M. Bonacchi, M. Leporatti, L. Stefani, R. Bresci, G. Setti ecc -. Pertanto oserei manifestare l’impressione che Lei usi l’aggettivo derivato (irripetibile) piuttosto impropriamente nel contesto della Sua spiegazione. Comunque è verità di fede che il Sacrificio cruento di Cristo è irripetibile nel senso di non reiterabile e non sto a spiegarne le ragioni che credo siano evidenti anche ad un musulmano: era questo che Lei voleva farmi capire? Se così fosse, bah!, la forma avrebbe tradito completamente il contenuto. Ma procediamo con ordine. Lei usa il verbo attualizzare (la Messa attualizza il Sacrificio di Cristo): l’ha usato anche l’amico prof. Andrea Conti nell’ultimo numero del mio bollettino, così come io ho usato il verbo ri-presentare (rendere presente). Niente da eccepire, purché non lo si voglia assolutizzare ed esclusivizzare, presentandolo, cioè, come il verbo che meglio d’ogni altro possa significare il valore della Messa. Mai ho sostenuto che la Messa “ripete” sic et simpliciter, il sacrificio fisico, storico di Gesù: non ho neppure utilizzato tale verbo, ma avrei potuto farlo senza tema, avendolo utilizzato pontefici quali Pio XII, per cui sarebbe stato opportuno non attribuirmi espressioni ed intenzioni che non mi appartengono. Essa, ho sempre pensato e scritto, è il Sacrificio della Croce che si rinnova perpetuamente in modo incruento per mezzo del sacerdote alter Christus; mistica e sacramentale immolazione che si compie quotidianamente e sotto tutti i cieli; sacrificio di lode, espiazione, propiziazione, impetrazione; vero sacrificio il quale applica i frutti che il Sacrificio del Calvario ha prodotto e da quello è distinto anche numericamente. (Cfr. P. Parente, Teologia del Sacerdozio di G. Cristo, in Enciclopedia del Sacerdozio, Firenze, LEF 1953; A. Piolanti, L’Eucarestia, Roma, ed. Studium 1952). In questa sua essenza la Messa è ripetibile-replicabile Alla luce di quanto sopra esposto – che non è farina del mio sacco ma che ho fatto mia – non reputo irriverente rimarcare come la Sua affermazione “si ripete il rito e non la realtà sacramentale che sta nel rito, che è appunto l’unico sacrificio della croce” possa apparire una tesi teologicamente azzardata e logicamente incongruente, sempre che le parole (ed anche la sintassi) abbiano un senso, per quanto del tutto inappropriate al concetto che volevano esplicitare e che mi suonano suscettibili, nella loro ambiguità, di diversa interpretazione. Vediamo un po’. Se nel rito della S. Messa c’è (o non c’è?), una realtà sacramentale, come è possibile una ripetizione del rito nella sua interezza ed in tutto il suo valore senza la contemporanea ripetizione di questa realtà? Scindendo rito e realtà sacramentale (nella quale Lei sembra identificare l’unico Sacrificio di Cristo sulla Croce: ma su questa espressione teologicamente inesatta e contorta presto si ritornerà) si approda alla cena nuda e cruda. Son convinto che Lei non volesse sostenere questo, che equivarrebbe al rinnegamento d’un dogma centrale della nostra religione, in cui convergono tutti gli altri, ma l’imprecisione, l’inadeguatezza, la frettolosità, forse, del Suo discorso (comprensibili e compatibili in un semplice fedele come me) con conseguente ambiguità concettuale, questo possono indurre a credere. Ben diversa avrebbe dovuto essere, per terminologia e argomentazione, la sua “contestazione” al mio articolo, benché niente di contestabile altri vi abbia rilevato, alla quale avrebbe corrisposto, ora, un mio ben diverso giudizio. Trascrivo qui, per il loro esemplare nitore lessicale-concettuale, poche righe di mons. Antonio Piolanti, esimio teologo, Rettore della Pontificia Università Lateranense, recentemente scomparso: “Per l’intima solidarietà che vige tra il Capo e le Membra del Corpo Mistico, era necessario che il Sacrificio della Croce, rimanendo uno e assoluto, passasse nella trama quotidiana della vita della Chiesa, si rendesse coestensivo a tutti i tempi e a tutti i luoghi senza moltiplicarsi. Moltiplicando i segni non si moltiplica la realtà significata: sull’altare si moltiplicano le immolazioni mistiche, ma poiché queste hanno un carattere essenzialmente rappresentativo dell’immolazione del Calvario, non moltiplicano la realtà cui si riferiscono. Così nella Messa si hanno le identiche realtà del Calvario; vi è contenuta la stessa vittima e lo stesso sacerdote del Calvario; vi circola l’offerta che è una e immutabile, come la continuazione cristallizzata del Calvario; nella sfera esterna e rinnovata, in signo, in sacramento, ma non moltiplicata, la stessa morte della Croce” (A. Piolanti, Il Mistero Eucaristico, Firenze 1956). Non è da meno padre Enrico Zoffoli, anch’egli professore alla Lateranense e autore di molte opere di teologia e filosofia, nel suo catechistico La Messa è tutto, Udine 1993: “Il rito eucaristico è un <<segno>> assolutamente diverso da tutti gli altri usati nella vita umana, i quali sono sempre altra cosa da quanto significano: la bandiera non è la nazione; la tela di Raffaello che ritrae Giulio II non è Giulio II; un film storico non è la vicenda rievocata. In questi e in tutti gli altri casi il <<segno>> è vuoto, il <<simbolo>> è privo di un contenuto, l’immagine non è la realtà riprodotta; e, trattandosi di un evento passato, il <<segno>> può farlo soltanto ricordare (…) sull’altare, invece, nel pane e nel vino – in virtù della consacrazione che transustanzia l’uno e l’altro nel corpo e nel sangue di Cristo – non abbiamo soltanto dei <<segni>>, ma anche la Realtà significata nella Persona di Cristo, Verbo incarnato, presente sotto le specie eucaristiche; con tutta la sua umanità e divinità. Si tratta, perciò, di una <<presenza sacramentale>>, perché rivelata (e creduta) da un <<sacramento>> (= signum) ricco del <<contenuto-Mistero>> costituito da Cristo, Sacerdote e Vittima nell’Atto unico e indivisibile dell’Offerta cruenta di Sé al Padre, riprodotta simbolicamente dalle specie eucaristiche; le quali appunto perché consacrate distintamente, evidenziano l’uccisione della Vittima della Croce, irrepetibile in se stessa, ma sempre ripresentabile attraverso la concreta eloquenza del <<segno>> indefinitivamente rinnovato. (…) Ad un solo <<sacrificio>> rispondono le <<molte messe>> secondo la moltiplicazione numerica del rito eucaristico”. In tali ineccepibili esposizioni è proposto con icastica lucidità il valore liturgico-sacramentale-sacrificale della Messa che in forma solenne e vincolante ritroviamo confermato nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo II, il quale ammonisce: “L’Eucaristia è un dono troppo grande per sopportare ambiguità e diminuzioni”. (E. d. E., Introduzione § 10). S’io fossi un teologo autentico, di quelli fini, per evidenziare i grossi limiti delle sue asserzioni, Le osserverei che Piolanti e Zoffoli, in un dettato rigoroso, parlano a ragion veduta di “realtà significata” (res significata), realtà che, senza alterazione né moltiplicazione di sé, permanendo una ed unica, trova nel “signum” o “sacramentum tantum” una sua ri-proposta nell’ “hic et nunc” del rito sacramentale, una sua ri-presentazione. O, con C. Journet (La Messa, Milano 1958), che, parlando del Sacrificio della Croce, sulla traccia di S. Tommaso, del Caietano, del Bossuet ecc, preferisce “perseverare” a “rinnovare”, il cui uso pure, per traslato, approva, direi che la Messa reitera e rinnova le “presenze” del sacrificio cruento. Fossi quel dotto, equivoca e poco intellegibile, come già accennato, definerei quella Sua “realtà sacramentale che sta nel rito e che è appunto l’unico sacrificio della Croce” e Le obietterei: se Lei dice “realtà sacramentale”, dice la realtà del “segno” (il sacramentum tantum e il rito che lo effettua) e non può dire, perciò, “la realtà sacramentale che sta nel rito” e tanto meno “che è l’unico Sacrificio di Cristo”. L’unico Sacrificio di Cristo è la Sua passione e morte di Croce. Tale Sacrificio è la “realtà significata” dal sacramento e dal medesimo ri-presentata (res significata et repraesentata). Il sacramento, infatti, spiegherei, proprio per l’efficacia del rito (“opus operatum”) è “signum et instrumentum”: ha, cioè, una funzione allusiva (indica, significa) ed una causalità efficiente-strumentale (produce ciò che significa; è il caso della “res simul et sacramentum”). Ne consegue che : a) nel rito c’è la realtà originaria in quanto significata e ripetuta, o ri-presentata; b) non c’è la realtà sacramentale essendo tale esso stesso. E’ duro, in un bollettino d’impronta familiare, colloquiale, privo di ambizioni o velleità scientifiche, ricorrere ad una terminologia tanto specialistica, frutto di sapienza così profonda e assodata che, in tutta sincerità, fatico molto, non essendo sufficientemente attrezzato in materia, ad accedervi, oltre che a metterla per iscritto. Ma mi rendo ben conto che una terminologia come quella di cui Lei, attrezzatissimo, si serve, più o meno impropria, palesemente plurivalente se non proprio erronea, e comunque infelice, deve essere arginata, perché in campo teologico può provocar terremoti. Pensi, Reverendo, come anche l’errore di un infinitesimale “zero virgola” nei calcoli di un ingegnere basti e avanzi per far crollare ponti, dighe e grattacieli. Purtroppo, assai numerose sono oggi le ambiguità fuorvianti frutto della nuova teologia, e del relativo nuovo linguaggio, che talvolta riprende la speculazione di ottimi teologi piegandola, coscientemente o meno non so, alle personalissime vedute dei suoi corifei, per cui io preferisco restare ancorato nel porto sicuro delle Verità che ho appreso nelle stagioni in cui nei seminari, nelle facoltà pontificie, nelle associazioni cattoliche e dai pulpiti si insegnava la retta dottrina. “L’augusto Sacrificio dell’altare… rinnovato ogni giorno… Dio vuole la continuazione di questo Sacrificio”, leggo nella Mediator Dei del Servo di Dio Pio XII, enciclica munita nelle sue parti dogmatiche della nota dell’infallibilità, che si ricollega alla teologia della S. Messa solennemente definita dal Concilio Tridentino, Sessione XXII, e a tutta la Sacra Tradizione, la quale, come si diceva un tempo, è canale della Rivelazione (Cito dagli originali vaticani riprodotti dalla Società “Vita e Pensiero” nel 1956). L’immolazione sacramentale, incruenta, si ripete-replica-reitera ogni giorno attraverso la S. Messa. Oggi si disdegna alquanto, perché ritenuto antiquato, se non addirittura errato, il verbo “rinnovare” per il più à la page “attualizzare” che pure, se non ben inteso, qualche confusione potrebbe ingenerare, ove si consideri che il Sacrificio del Calvario è sempre attuale nel suo valore metastorico. Ma col cambiar linguaggio, come col mutuare espressioni dalla cultura contemporanea, non sempre ben digerita, si rischia di andare e far andar fuori strada, di cadere, come si è caduti, in proposizioni non cattoliche, nella trasfinalizzazione o nella transignificazione ad es., che dovrebbero sostituire la “tradizionale” transustanziazione, condannate da Paolo VI. Ed allora io mi attengo, anche linguisticamente, agli autori “probati” alla mia modesta portata, che sono una “summa” del Magistero della Chiesa in materia (Tanquerey, Piolanti, Parente, Bartmann, Premm, Lagrange, Grimal, Palazzini ecc.) e ad opere come l’ Enciclopedia cattolica, per non parlare della Mysterium Fidei e del Credo di Paolo VI e della recente Ecclesia de Eucharistia, oltre alla citata Mediator Dei. La Sua lettera è “personale” e, come tale, resterà riservata. Alcuni concetti e definizioni ormai patrimonio diffuso, però, (il Sacrificio che si attualizza, la repetibilità del Sacrificio di Cristo e quello, che non è Sua invenzione, perché anche da altre parti si propone, di rito che si ripete mentre non si ripete la realtà sacramentale che vi sta dentro), senza ovviamente alludere minimamente alla Sua persona, e con accorgimenti tali da impedire che alla Sua persona essi possano ricondursi, (per quanto, a mio modesto avviso un sacerdote non dovrebbe aver timore di far conoscere urbi et orbi le sue posizioni dottrinali che ritiene pienamente ortodosse), li ho sottoposti al vaglio di un antico amico, teologo assai stimato, affinché sciolga i dubbi miei e quelli dei lettori del mio bollettino. Se lo riterrò opportuno darò notizia delle altre Sue considerazioni critiche, in modo sempre assolutamente impersonale, onde salvaguardare la Sua identità, e stia tranquillo che, quando mi sarà pervenuto l’alto parere, non avrò remore ad ammettere i miei errori pubblicamente, come impone la morale cattolica. Come vede, con le persone corrette non amo polemizzare, ma discuto serenamente, accetto lezioni, replico in purezza d’intenti, mi espongo a critiche e non indietreggio davanti ad eventuali ritrattazioni. Però, suvvia, Reverendo, questo lo riconosca: la veneranda S. Messa di S. Pio V non si può in alcun modo considerare rito per esteti e per lo scelbiano “culturame”. Non si possono buttar nella spazzatura, o almeno considerare obsoleti, 2000 anni di Sacrificio, di Fede, di Magistero, di santità che in quel rito sono sintetizzati. Su questo non potrò mai seguire né Lei né alcun altro, vescovi e papi compresi, il cui insegnamento non può per nessun motivo, per quanto onesto possa essere, prescindere da quello dei predecessori. L’attuale Pontefice, come l’ex-novatore Ratzinger, che nel Concilio era più o meno sulle stesse posizioni dei nefasti Rahner, Chenu, Schillebeex, Congar, Kung ecc. a supporto teologico degli altrettanto nefasti cardinali Suenens, Lienart, Alfrink ed altri ecclesiastici olandesi, belgi, tedeschi, francesi eretici quanto i loro catechismi, oggi amaramente pentito come il Paolo VI del fumo di Satana, l’hanno capito, tardi ahimé, e stanno, finalmente, operando proficuamente nella giusta direzione, tentando di riparare, con quali esiti si vedrà, le troppe falle aperte proditoriamente nella barca di Pietro che, per tornare sicura al largo, ha bisogno di timonieri e marinai accorti e vigili. Che Dio li ricompensi come meritano, in questa e nell’altra vita.
Dev.mo in Xto et Maria Dante Pastorelli
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