Ecclesia Dei. Cattolici Apostolici Romani

PREGARE I SALMI IMPRECATORÎ?

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Raimundus
view post Posted on 6/7/2015, 14:03     +1   -1




Don Raimondo Mameli

PREGARE I SALMI IMPRECATORÎ?



In questa breve relazione mi propongo di mostrare quale antropologia emerga da una lettura dei c.d. “salmi imprecatorî”, inseriti nel contesto più ampio di tutto il salterio e in riferimento con quanto possiamo inferire sullo scandalo del male nei due Testamenti.

Nell’Antico Testamento, i primi 11 capitoli di Genesi mostrano bene la polarità bene-male; Dio, la cui essenza è l’amore, mostra la sua benevolenza con la creazione e con l’azione redentrice, in forza dell’alleanza instaurata col suo popolo. Tutto ciò che esce dall’azione creatrice di Dio è buono; l’uomo è addirittura molto buono. Tuttavia, quest’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio è dotato di intelletto e volontà, possiede la facoltà di conoscere Dio e rispondere al suo amore liberamente.

La parabola umana dei progenitori e della loro discendenza mostra una escalation di violenza: si passa dal peccato di orgoglio della presunzione di autosufficienza dell’uomo all’odio fratricida; il peccato esce dalla dinamica familiare per diventare un peccato sociale, riguarda un popolo che desidera edificare una città secondo i proprî desideri, ed edificare una scala che arrivi al cielo, come se giungere al cielo potesse dipendere da un nostro sforzo e non dalla benevolenza di Dio, dalla κατάβασις di Dio stesso.

L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, mostra a quali drammatici esiti possa giungere un’umanità disumana che pone mercantilisticamente le vite umane al termine di un lungo elenco di merci, di beni d’uso e consumo, dopo gli schiavi (cfr. Ap 18,11).

Tra questi due poli di Genesi e Apocalisse, tante pagine mostrano lo scandalo del male presente nella situazione postlapsaria dell’umanità. Alcune però lo fanno in maniera eminente, con un approfondimento che trascende il dato contingente della vita del popolo, pur attraverso un’analisi molto realistica di un’umanità incarnata e avviluppata nelle maglie della storia.

In tal senso, dobbiamo accennare al libro di Giobbe, che smaschera le pretese di una teodicea a buon mercato, mostrando l’ineffabile sofferenza del giusto (tema sul quale avranno molto da dire tanto il profeta Isaia quanto i Vangeli). Il salterio si trova incastonato, per così dire, tra la riflessione di Giobbe e di Qoelet, e riverbera in filigrana un’antropologia teologica molto elaborata.

C’è a mio giudizio nella Scrittura un andamento ternario (bene – male – bene), che si dispiega nel duplice processo: dal bene (vita, felicità…) al male (dolore, morte…) e dal male al bene.

Il salterio mostra l’anelito di bene del credente compenetrato dalla viva esperienza del male presente nel proprio cuore e nella vita quotidiana nelle dinamiche interpersonali.

Il salmista è realista: sa che che l’uomo anela alla santità pur facendo quotidiana esperienza del peccato (cfr. anche Prv 24,16; Rm 7,14-19).

L’uomo conosce il dolore (cfr. Sal 38; 39; 69), piange, urla in maniera tale da rasentare quasi la bestemmia (cfr. Sal 42,4.11; 79,10; 115,2), come se Dio in alcuni casi potesse contraddire se stesso, dimenticandosi delle sue creature; ma il salmista questo non lo consente, perché fa suo tutto il dolore dell’uomo, ma con un’apertura alla speranza, alla fiducia nel Signore che sconfina nella lode. La Parola di Dio, anzi, mette in guardia dall’unico peccato veramente inescusabile, ossia la bestemmia contro lo Spirito Santo (cfr. Mt 12, 31-32).

È poi interessante notare come questo grido, questa ribellione dell’uomo di fronte alla tragedia di tanti dolori e tante morti umanamente incomprensibili sia rivolto a Dio, onde il Card. Ravasi poteva parlare della bestemmia come una forma di preghiera, perché chi bestemmia sta implicitamente affermando l’esistenza di un Dio (non bestemmierebbe contro un qualcuno da lui creduto inesistente) destinatario dei proprî lamenti.

Il popolo orante sa bene che la preghiera liturgica dei salmi – che è preghiera della, con la e per la Chiesa – fa suoi i sentimenti di tutti gli uomini: una persona può pregare un salmo che descriva sentimenti differenti da quelli vissuti dall’orante in quel determinato momento perché contemporaneamente c’è qualcuno che sta vivendo i sentimenti cantati dal salmista.

Per questi motivo, è da biasimare, absit iniuria verbis, la soppressione pastorale dal salterio liturgico dei c.d. “salmi imprecatorî” (cfr. Principi e norme per la liturgia delle ore, n. 4), la quale – oltre a rinunciare a estirpare nelle persone più sprovvedute cristianamente un pernicioso neomarcionismo – impedisce all’orante di fare suo il grido di tanti fratelli che muoiono oggi in situazioni disperate o attraversano esperienze drammatiche senza una consolazione umana e con la psicologica convinzione di essere abbandonati da Dio (la vita quotidiana di tanti cristiani e non in India, in Siria, gli stupri, gli omicidî in odio alla fede dovrebbero rammentarci qualcosa). È opinione di chi scrive che le pagine “difficili” della Bibbia vadano affrontate attraverso una corretta ermeneutica e non col bisturi, alla luce di quella sensibilità irrinunciabile che promana dalla lettura dei nn. 14 e 16 della Costituzione conciliare Dei Verbum.

Certo nel salterio ci sono dei salmi oscuri, disperati, ma riverberano una situazione cui una parte dell’umanità, nel corso della storia, non è stata aliena. Pensiamo al Sal 88, che reca il titolo “Preghiera a Dio dal profondo dell'angoscia”. Nel Sal 88 l’orante grida instancabilmente, diuturnamente (vv. 2; 10; 14), prega, supplica perché è sazio di sventure, e la sua vita è sull'orlo degli inferi (v. 4); vive ma si sente come se fosse già morto (v. 5). Di questa situazione accusa Dio: «Mi hai gettato nella fossa più profonda, negli abissi tenebrosi. Pesa su di me il tuo furore e mi opprimi con tutti i tuoi flutti. Hai allontanato da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore. Sono prigioniero senza scampo, si consumano i miei occhi nel patire» (vv 7-10; cfr. i vv. 15-18). Eppure, pur nell’accusa, continua a dialogare, a pregare, a protendere la mani a Dio, pur avvolto nelle tenebre. Non è un monologo, è un dialogo, seppur apparentemente senza risposta. La preghiera non è un atto magico, improntato al nesso di causa ed effetto; è una scuola di obbedienza (ob-audire), di esercizio delle virtù teologali, nella certezza che Dio esaudirà secondo la sua sapienza nei modi e nei tempi opportuni, perché il suo amore per noi supera il nostro amor proprio, ed ha a cuore la nostra felicità più di noi stessi.

Una lettura cristiana dei Salmi ha molto da insegnare su come debbano essere correttamente vissuti e interpretati. Gesù stesso, in croce, non ha forse voluto pregare un salmo drammatico come il Sal 22? Ha voluto abbracciare il dolore di un’umanità che spesso si sente abbandonata, per dare un senso alla sofferenza, per indicare la via maestra per attraversare tale esperienza e viverla cristianamente. Gesù fa suo il grido dell’umanità, sperimenta il silenzio eloquente di Dio che interpella una risposta di fede, un Dio che, nel momento del silenzio si mostra come sommamente presente e come unico interlocutore possibile («Eppure tu sei il Santo…» [v. 4], «sei tu il mio Dio» [v. 11], e il salmista fa memoria di ogni significativo καιρός dell’historia salutis: «In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li liberasti; a te gridarono e furono salvati, in te confidarono e non rimasero delusi» [vv. 5-6]). La seconda parte del salmo esprime la lode post pasquale, anticipata proletticamente, per la risposta del Signore, «perché egli non ha disprezzato né disdegnato l'afflizione del povero, il proprio volto non gli ha nascosto ma ha ascoltato il suo grido di aiuto» (v. 25).

Parlavo di antropologia, all’inizio della relazione. Quale antropologia possiamo ritrovare nelle pagine più difficili per il lettore moderno? Quella che mostra un uomo il cui cuore è schizofrenico, capace di slanci eroici, di gesti di straordinaria carità e delle meschinità più atroci. Dio odia il peccato ma ama teneramente il peccatore, a differenza nostra che spesso identifichiamo la persona con suo peccato, e cadiamo nel giudizio. Dio non si scandalizza dell’umanità ferita dalle conseguenze del peccato originale; offre un vestito che coprà la nudità dell’uomo, resta fedele all’alleanza instaurata a un popolo infedele; offre il dono della regalità a Davide, reo di stupro, cui la tradizione attribuisce la paternità di diversi salmi; il testo ispirato vuole la presenza di persone non certo esemplari persino nella genealogia di Gesù Cristo.

C’è nella Bibbia un uomo che odia il nemico, che chiama in causa Dio perché distrugga, annienti l’avversario, paragonato a cani rabbiosi, leoni e serpenti velenosi; spesso la violenza appare come un gesto religioso, come l’uccisione dei profeti di Baal da parte di Elia (1Re 18,17-40).

Il Sal 83 è fortissimo, invita Dio a «non restare muto e inerte» (v. 2) contro i suoi avversari e nemici, che congiurano contro il suo popolo (v. 4); invoca la distruzione dei nemici (vv. 10-11): «così tu inseguili con la tua bufera e sconvolgili con il tuo uragano. Copri di vergogna i loro volti perché cerchino il tuo nome, Signore. Restino confusi e turbati per sempre, siano umiliati, periscano…» (vv. 16-18).

Nelle Litaniae sanctorum – che si muovono nel solco tracciato dal Sal 110 – si pregava sino a qualche decennio fa perché Dio rendesse umili i cuori dei nemici della Santa Chiesa («Ut inimicos sanctae Ecclesiae humiliare digneris, Te rogamus audi nos!»).

Proprio Gesù, nel Nuovo Testamento, mostra l’esito alto della pedagogia divina, che non consiste nella cancellazione della realtà del peccato, ma nel perdono del peccatore, di ogni peccatore, anche di chi si scandalizza dei peccati altrui pur essendo forse smemorato o indulgente verso i proprî (cfr. Mt 5,21-22.38-48).

Il Sal 137,9 recita: «Beato chi afferrerà i tuoi piccoli [o figlia di Babilonia] e li sbatterà contro la pietra», esprimendo il lamento disperato, che non deve essere preso alla lettera, di chi è stato duramente oppresso, di colui sul quale incombe un pericolo di morte, una minaccia terribile, ed ora chiede giustizia; la nostra stessa esperienza ci dice come nei momenti di rabbia e di disperazione diciamo parole esagerate e iperboliche che non pensiamo davvero e di cui ci pentiamo immediatamente. Ciò che però nel nostro cuore desideriamo veramente è la distruzione del male (libera nos a malo), il vero fine cui tende quella supplica affinché siano annientati i nemici e i malvagi (cfr. Sal 3,8).

Di fronte all’adultera, che fa Gesù? Non dice che la legge antica fosse sbagliata, non la abroga, ma ne mostra l’inapplicabilità: nessuno dei presenti è degno di applicarla, e lui, l’unico che avrebbe diritto di scagliare la pietra (Quoniam tu solus Sanctus, tu solus Dominus, tu solus Altissimus), non lo fa (così come Dio Padre mostra la sua infinita pazienza, introducendo una dinamica differente dall’immediata punizione del reo: Es 34,6; Nm 4,8; Sal 103,8 etc...).

Nella logica dell’avete inteso che fu detto… ma io vi dico porta a perfezionamento la legge, mostra quale sia la corretta ermeneutica della legge e la sua funzione autentica, che è quella – anche nel primo Testamento – di estirpare il male e frenare la violenza privata e sociale. Il diritto penale antico e moderno serve a favorire, attraverso la punizione, la resipiscenza del reo, è finalizzato alla sua salus animae, e serve ad affrancare le vittime dall’altrui prepotenza. La legge smaschera il male e ne limita gli effetti, impedendo la giustizia privata e sommaria, in modo che le stesse sanzioni siano proporzionali al capo d’imputazione.

Giunto al termine della pur breve rassegna, desidero fare alcune altrettanto brevi riflessioni conclusive.

Assuefatti al male, non ce ne accorgiamo, non ci scandalizziamo più di stupri, violenze e di ogni sorta di atrocità che quotidianamente vengono documentate dai mezzi di informazione. Suicidî e omicidî sono in crescita esponenziale. Il fatto più grave per il credente è la mancata lettura cristologica della Scrittura, lo scarso o nullo esame di coscienza, che porterebbe a trovare nel proprio cuore, più che al di fuori di noi, nella realtà circostante, i nemici da combattere (cfr. Rm 7-8); la nostra insipienza spirituale rischia di neutralizzare la portata pedagogica dell’iniziativa divina. Per questo motivo, occorre restituire ancor di più la Parola di Dio al popolo cristiano, senza alterazioni, senza omissioni, ma restituita nel suo significato genuino e attualizzata in guisa sagace perché sia di ristoro ai credenti di oggi e di domani.
 
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