| Un problema sottovalutato ma gravissimo per implicazioni e conseguenze L’ABITO ECCLESIASTICO di Dante Pastorelli
Di proposito suffraghiamo queste note con documenti esclusivamente post-conciliari che, in quanto tali, non possono essere considerati consunti fossili dell’èra costantiniana della Chiesa. Il vigente Codice di Diritto Canonico (CIC), promulgato nel 1983, al can. 284 stabilisce: “I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate dalla Conferenza episcopale e secondo le legittime consuetudini dei luoghi”. E nell’Appendice terza (cito dal CIC, a cura di Luigi Castiglione, ed. Logos, 1995) al n.2 leggiamo: “Salve le prescrizioni per le celebrazioni liturgiche, il clero in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman”. Pur in assenza di pene espressamente elencate per i trasgressori abituali, che erano presenti, invece, e molto opportunamente, nel più severo CIC del 1917, nessuno può mettere in dubbio l’obbligatorietà dell’abito ecclesiastico per i chierici oltre che per i religiosi: si veda anche il can. n. 669. I testi sono inequivocabili. La Conferenza Episcopale Italiana (CEI), in data 22 aprile 1966, in ottemperanza a due documenti del Concilio Vaticano II ( Ecclesiae Sanctae, Perfectae caritatis ), emana la seguente “Notifica”: “La CEI, considerando la opportunità che l’abito ecclesiastico, pur nella tutela della dignità sacerdotale, possa venire adattato alle esigenze della vita contemporanea e alle nuove condizioni dell’apostolato (…), desiderando assicurare ai sacerdoti, anche in questa materia, uniformità di disciplina, a loro personale vantaggio e ad edificazione della comunità, conferma che l’abito talare rimane la veste normale del sacerdote e anche dei religiosi. Esso è d’obbligo: a) nella propria chiesa; b) negli istituti Ecclesiastici; c) nell’esercizio del sacro ministero; d) nelle funzioni liturgiche, anche se tenute fuori chiesa; e) nella sacra predicazione; f) nell’amministrazione dei Sacramenti e Sacramentali; g) nell’insegnamento religioso nelle scuole. La Conferenza stabilisce che sia consentito a tutti i sacerdoti di cambiare l’abito talare con il clergyman - consistente in giacca e calzoni di stoffa nera (o grigio ferro scuro) e collare ecclesiastico - in caso di viaggi, di escursioni, di uso di macchine da trasporto ecc., cioè quando lo richieda la comodità in un’ azione profana. In qualunque ambiente o circostanza, entro e fuori diocesi e all’estero, come in occasione di ferie, il suddetto abito, “utpote sacerdotii signum”, dovrà essere indossato, in pubblico, completo; così che esso risulti per tutti i sacerdoti unico e ben caratterizzato e gli ecclesiastici abbiano a poter essere sempre riconosciuti come tali” Questa normativa non è mai stata revocata né modificata in alcuna delle sue essenziali disposizioni. Paolo VI prima e Giovanni Paolo II poi più volte l’hanno richiamata, invitando il clero ad attenervisi, convinti, come i loro predecessori Pio XII e Giovanni XXIII, che l’abito ecclesiastico, talare e clergyman, quest’ultimo dove e quando permesso, è “segno di consacrazione, testimonianza di fede, richiamo alla santità, efficace mezzo di tutela contro le insidie d’una società secolarizzata, agnostica e amorale” ( E.Zoffoli, Dizionario del Cristianesimo, Roma 1992). Ma la realtà è sotto gli occhi di tutti: preti sbracati compaiono non solo nelle più disparate e scollacciate trasmissioni televisive, come l’onnipresente don Mazzi, ma dappertutto intorno a noi, perfino in chiesa, in confessionale, alla porta delle nostre case per la benedizione pasquale, che è un sacramentale. Per le strade e nei bar dei nostri quartieri si possono incontrare monsignori, parroci e cappellani che indossano abiti civili eleganti, all’ultima moda e griffati, o capi variopinti, sudici e cialtroneschi, e pertanto in niente sono distinguibili da vani dandys o da metallari e barboni. A cosa sia dovuto tale riprovevole comportamento da parte dei sacerdoti è difficile dirlo. Le cause possono essere diverse e spesso convivono nella stessa persona: vergogna d’essere individuati come ministri di Dio; volontà di essere “uguali” ai laici, uomini fra gli uomini e non dei “diversi” la cui natura è stata modificata dal carattere indelebile impresso dal Sacramento dell’Ordine, e di “vivere nel mondo”, dimenticando che essi sono stati mandati “contro il mondo”; complessi d’inferiorità e smania d’essere “accettati”; concezione del sacerdozio erroneamente inteso come ministero promanante dal basso, dal consenso dei fedeli; impulso incontrollato alla trasgressione come rifiuto di una società gerarchicamente strutturata; superficialità ed infantilismo. Il risultato, comunque, non cambia: si tratta di una pervicace disobbedienza alla legge della Chiesa. I Vescovi sanno bene tutto ciò, ma non intervengono, come sarebbe loro preciso dovere. La presenza, di per sé educatrice, edificante e consolante, del sacerdote identificabile immediatamente quale ministro della Chiesa Cattolica per le vie della città è ormai soltanto un vago ricordo per noi adulti. I giovani non ne hanno fatto la positiva esperienza. Il Cristo visibile è sempre più lontano dalla vita comunitaria. Solo gli ingenui e gli astuti nemici della Chiesa possono minimizzare questo problema che, al contrario, è assai grave, comportando esso confusione tra sacro e profano, laicizzazione del clero, perdita di dignità del prete, eccessiva familiarità, soprattutto con i giovani - che non riescono più ad avvertire la sacralità della persona del sacerdote e della sua funzione e la necessità del dovuto rispetto -, banalizzazione del culto, rarefazione della frequenza nell’accostarsi ai Sacramenti, specialmente alla Penitenza, diminuzione e sfaldamento della fede. Se i richiami del vertice della Gerarchia vengono disattesi, con le rovinose conseguenze sopra accennate, è evidente che il clima di rilassamento e di illegalità nella disciplina ecclesiastica ha ormai raggiunto lo stadio di una metastasi. Constatato che le parole non bastano e che l’uso generoso delle armi della misericordia ha sortito un simile esito, è indispensabile ed urgente ripristinare, col rigore guidato dallo Spirito Santo, l’uso delle armi della severità e della giustizia che non escludono affatto la misericordia ma, anzi, la inverano e la esaltano.
(Da UNA VOCE DICENTES, A. I N. 2, gennaio maggio 2002)
Come al solito, le leggi esistono, ma i preti disobbediscono, disobbediscono o non intrvengono né i vescovi, per qunto perfettamente a conoscenza della situazione, né chi è loro ben al di sopra. Un rilassamento totale che non vedo come posa esser superato senza interventi coercitivi. Il duro e realistico discorso dell'allora card. Ratzinger ai conclavisti aveva fatto ben sperare. Ma le mie speranze già da qualche tempo han cominciato a vacillare.
Le esperienze di Sandalion e di Imerio (come mai l'amico Pacificus non s'è fatto più vivo?) sono anche le mie. Eppure a Borgo a Mozzano, se un prete indossa la talare, giovani e genitori non gradiscono: e, anche se si tratta di sacerdoti 35-40enni, aperti e dotti, li gratificano di "vecchi" arretrati.
|